Quando Gian Maria Volonté era Aldo Moro

Pubblichiamo un estratto dal libro di Giuseppe Sansonna Hollywood sul Tevere, uscito per minimum fax, ringraziando editore e autore.

di Giuseppe Sansonna

Al termine di una distesa di democristiani agonizzanti, adagiati sull’erba di una villa, i riporti scomposti, le cravatte allentate, le gole mortalmente strette da rosari, le bocche intasate di microfilm compromettenti, gli addomi gonfi, sbucanti dalle camicie insanguinate, c’è Gian Maria Volonté, definitivamente trasfigurato in Moro.

Genuflesso, gli occhi rivolti al cielo, mormora piangendo una preghiera, sobbalzando a ogni singhiozzo. Il film è Todo modo: nel copione nemmeno troppo fantapolitico, che Elio Petri ha tratto da un romanzo di Sciascia, Volonté, calco mimetico dello statista democristiano, convoca il gotha del suo partito in un misterioso albergo, per mondare lo spirito corrotto, dedicandosi agli esercizi spirituali di sant’Ignazio di Loyola.

In realtà Moro-Volonté vuole espiare oscure colpe politiche trascinando con sé, come un pifferaio di Hamelin deciso a suicidarsi con tutti i suoi topi, l’intera DC, qui rappresentata come cancrena del paese. Alle sue spalle Franco Citti, suo azzimato assistente, doppiato in italiano burocratico, sta per sparargli l’agognato colpo di grazia.

Il film esce nell’aprile del 1976: la DC è al minimo storico, dopo il referendum sul divorzio del 1974. I partiti della sinistra, invece, potevano vantare il cinquanta per cento dei consensi. «Era l’epoca del compromesso storico, quindi in privato i comunisti ti dicevano che gli piacevi, ma in pubblico ti attaccavano», è il ricordo di Petri. Il risultato è la rapida sparizione del film dalle sale. La damnatio memoriae riservata al film viene aggravata dall’uccisione di Moro, a opera delle BR, due anni dopo l’uscita. Lo statista assurge a corpo sacrificale, martire nobile, Banquo metafisico onnipresente nell’immaginario politico italiano.

Ma il Moro a cui si ispirava Volonté era ancora una figura in carne e ossa, invischiato nei meandri del Palazzo. Mentre si accinge a girare Todo modo l’attore perde la sua ruvida, virile consistenza. Diventa evanescente, cammina come se fosse sospeso sulle nuvole. Parla a bassa voce, non guarda negli occhi nessuno. Uno sforzo di concentrazione mostruoso. All’uscita del film, critici e addetti ai lavori si accaniscono. «Sembra Noschese», dicono, stigmatizzando un’applicazione maniacale. Petri e Volonté, prima di girare, hanno passato ore in moviola, a esaminare video di repertorio, telegiornali, tribune elettorali.

«Per scrivere il copione avevo studiato alcuni dei suoi dilaganti discorsi. Posso assicurare che abbiamo censurato moltissimi dei comportamenti di Moro che sarebbero risultati troppo irriverenti nella loro comicità, e invece erano proprio suoi. Moro si abbandonava spesso a cineserie, rituali assai elaborati, nell’incontrare uomini politici, o delegazioni straniere, o altri. Ne venivano fuori autentici balletti. […] I primi due giorni di lavorazione di Todo modo furono cestinati da me, d’accordo col produttore e con lo stesso Volonté, perché la duplicazione di Moro era talmente esatta da risultare nauseante, imbarazzante, prendeva alla bocca dello stomaco. In quell’immagine risultava tutta l’insidiosità, l’astuzia dell’uomo politico».

Volonté e Petri lavorano per attenuare la mimesi e inserire nel personaggio sfumature di altri componenti della Democrazia Cristiana. Moro, in Todo modo, avrebbe dovuto incarnare una maschera dello sfascio, della catastrofe. Scelto con implicito giudizio politico, da Petri, «mostrando tutta la sua grande abilità nell’incantare le sinistre, per poi incastrarle, snaturarle, asservirle».

Lo sguardo di Petri è critico e perfino spietato rispetto a un certo modo di interpretare il cattolicesimo, a una chiesa troppo avvinghiata al potere politico, sempre più incapace di intercettare i sentimenti popolari, chiusa nella dimensione catacombale che il film ci restituisce.

Nella penombra claustrale dello Zafer affiorano, come creature di Grosz, giornalisti asserviti, imprenditori, politici, ecclesiastici, intellettuali organici ed esponenti di un capitalismo di Stato, vera leva economica del paese. Un Leviatano composito, che ha come fulcro il Presidente Volonté che Petri riesce a restituire in tutta la sua cupa trasparenza.

Il Moro ricreato da Volonté e Petri ha ricadute da commedia grottesca, confessa al terribile prete Mastroianni desideri di stupro passivo. Sogna amleticamente di prendere decisioni, ma non riesce a vararle. Animato da una contorta perversione sessuale scaturita dall’impotenza, è esasperatamente mellifluo, isterico, piagnucoloso, in eterna ricerca di assoluzione. Gelidamente comico.

Porta il potere sulle sue spalle come una croce, e il tormento di questa sorta di estenuante esercizio spirituale gli si legge sul viso esangue, nello smarrimento rassegnato, nella smorfia amara della bocca, nello sguardo malato.

Petri dipinge nel corpo di Volonté un Moro colto da una vera e propria vocazione al martirio, diventato schizofrenico a causa dell’assunzione di un insostenibile compito storico: «Mediare tra l’anima utopica e quella affarista del suo partito, includendo i partiti di sinistra. Cercando un’intesa tra poveri e ricchi, tra sfruttati e sfruttatori. La croce della maledizione gli pesava addosso sempre di più, e pareva poterlo schiacciare da un momento all’altro. Anche Moro aveva concepito, a modo suo, al pari di Loyola e Sade, l’inconcepibile: una mutazione che nulla mutasse, un moto che si sviluppasse nell’immobilità, un vuoto che sembrasse pieno, una sinistra che andasse a destra, una destra che andasse a sinistra. Ma sempre nella complicità con la parte peggiore del suo partito. E intanto il tessuto culturale e sociale del paese, in questa tensione metafisica, si andava sbracando, decomponendo, moriva, e continua a morire».

Petri scaglia la sua invettiva nei confronti di quello che allora era il centro del dibattito politico in Italia: la proposta del compromesso storico, vecchio vezzo del partito comunista, nato con l’alleanza di Togliatti e De Gasperi. Inseguire sempre l’alleanza con il proprio avversario viene visto da Petri come sintomo di vocazione al trasformismo, inestirpabile tara genetica del sistema politico italiano. Petri riassume questo nodo storiografico mettendo in bocca a Volonté, come un tic linguistico, la parola conciliazione, versione clericale del termine compromesso. Petri si scaglia contro questa idea di una Repubblica bloccata, di una democrazia che attinge la sua forza dalla mancanza del conflitto, dalla composizione del conflitto, e non vede nello scontro una risorsa.

Dopo la morte, Moro viene beatificato acriticamente. Per espiare il vilipendio da farsa tragica di Todo modo, a metà degli anni Ottanta, un Volonté relegato ai margini del cinema italiano finirà per reinterpretarlo, nel Caso Moro di Giuseppe Ferrara. Restituendo con misurata dignità la tragedia di un uomo di fronte alla solitudine, alla morte, all’abbandono.

Petri sconterà l’aspetto cupamente terminale del suo film, trovandosi a rimeditare, assai poco pentito, la sgradevolezza del suo cinema «in una società che chiede la gradevolezza a tutto, persino all’impegno: se l’impegno è gradevole, e quindi non dà fastidio a nessuno, lo si accetta. Altrimenti no: i miei film, al contrario, oltrepassano il segno della sgradevolezza.

«Ma questa è una società che ha ucciso sia il reale sia l’immaginario».

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