“La Netflix della cultura” e Chili, una storia italiana

di Giacomo Giubilini

La vicenda Netflix della cultura è un caso esemplare e merita un’analisi sia dal punto di vista economico che dal punto di vista culturale.

Dal punto di vista politico invece è abbastanza chiara e ha una sua logica stringente. Opinabile ma c’è:  interventista e sovranista, la nascita di una piattaforma per gli spettacoli on demand degli artisti e degli enti culturali italiani. L’Italianità va protetta e bisogna, pedagogicamente, offrire al consumatore occasioni di consumo e ecosistemi nuovi che lo aiutino a scegliere il prodotto nostrano e a superare la crisi sistemica del lockdown monetizzando attraverso nuovi canali.

Sarà davvero così? Ai posteri la sentenza.

Un intento politico discutibile, ma comunque una scelta politica e quindi con una sua dignità proprio perché di scelta si tratta. Franceschini, cioè, decide di decidere e già questo sembra un mezzo miracolo. Le conseguenze? Quasi sicuramente disastrose: ma questo è un altro discorso.

La vicenda è però anche altro. È la cartina di tornasole per capire meglio cosa stia succedendo nell’economia italiana e che idea di cultura ha la nostra classe dirigente e, a volte, dirigista. Dal punto di vista economico, la nuova società sarà partecipata al 51% da cassa depositi e prestiti e al 49% da Chili. Chili ha (fino al 2019) il seguente assetto societario: il 30% è di Brace (i cui soci principali sono i fondatori Stefano Parisi e Giorgio Tacchia), il 24% è nelle mani della famiglia Lavazza (attraverso Torino 1895), Antares private equity (Stefano Romiti) è all’11%, il veicolo Investinchili è al 7% (i soci, tra gli altri, sono la famiglia Passera, Francesco Trapani e Antonio Belloni), Negentropy special situations fund (di Ferruccio Ferrara) al 6%, e poi ci sono le major di Hollywood: 20th Century Fox al 4%, Viacom+Paramount al 4%, Warner al 4%, Sony pictures al 2,8%.

Si capisce subito che la società è saldamente in mano a quella tipica figura anfibia, mezzo manager mezzo politico, che solo l’Italia sa creare: Stefano Parisi. Parisi, che è bravo, risponde a pieno all’idea di mercato chiuso e rionale in cui la spartizione delle nomine e l’accesso al credito è possibile grazie ad una solida appartenenza politica e ad un network relazionale preservato dalle onde mercatiste. Per capire chi è, quanto sia bravo e quanto potere politico abbia, avendo attraversato tutti i gradini del praticantato partitocratico, dalla Cgil passando per De Mita fino a Fastweb più svariati ruoli ministeriali più  il ruolo di Advisor per Royal bank of Scotland e ben due, fallimentari, discese in campo in politica a Milano e alla regione Lazio, basta leggere qui.

Il modello di sviluppo di Chili, invece, è ricavabile dalla sua, confusissima, pagina di Company Profile: qui.

Nella pagina si parla anche  di un misterioso modello di business che dovrebbe renderla unica.“ primo e unico Entertainment Centred Marketplace”.

Un mezzo macello che capirebbe anche uno studente del primo anno di Bocconi: oltre al prodotto vendo o provo a vendere le esternalità positive (primo anno di economia) dello stesso: gadget e tutto ciò che è legato al licensing e al noleggio.

In sintesi estrema: Chili è un Tvod, Transactional Video on Demand, ossia i servizi pay-per-view con acquisto di ogni singolo contenuto via Internet. I competitor diretti di Chili sono rappresentati, per ora, dai vari servizi offerti da Apple, Google Play, PlayStation Store. Chili offre di acquistare DVD, Blu-Ray e merchandising e promozioni. Il merchandise comprende tipi di prodotti diversi: dalle tazze alle action figure, passando per le t-shirt e i libri. I prezzi partono da appena 0,99 euro. C’è anche un misterioso “magazine digitale” tale Hotcorn che, immagino, serva da aggregatore di raccolta pubblicitaria dei soci.

Recita la pagina: “HotCorn aiuta gli appassionati di cinema a scoprire e condividere la loro passione per i film…“. Grazie dell’aiuto. La differenza rispetto a Netflix, e cioè il suo strambo posizionamento sul mercato, la spiegò proprio Stefano Parisi in un’intervista del 2015 a Linkiesta.

Perché nel 2015? Il 22 ottobre 2015 in Italia sbarca Netflix. Chili è lì dal 2012.

Riletta oggi, l’intervista è commovente. Se è vero che del senno di poi son piene le fosse si capisce anche l’idea imprenditoriale che anima Parisi. Una frase su tutte: “i contenuti che possiamo proporre ai nostri clienti sono più recenti, più freschi, e si avvicinano molto di più alla sala cinematografica, cosa che vogliamo fare sempre di più.”

“Più freschi e recenti” e rispettosi della finestra di sfruttamento.

Poi però è arrivata Netflix. Già nell’intervista del 2015 si nota una certa malinconia di Parisi che avverte la fine imminente: il prezzo, la prima cosa che interessa i consumatori lo decidono i produttori. Cioè i soci che ci hanno messo una piccola fiche. Ed il prezzo è identico a Itunes. Quindi quale sarebbe il vantaggio competitivo di Chili rispetto a Netflix e gli Tvod? Parisi non può dirlo. Forse pensa di spiazzare il capitalismo vendendo milioni di tazze e dvd…

Era il 2015.

Già nel 2016 si paventa un nuovo aumento di capitale e chiaramente, per tentare di socializzare le perdite, il debutto nella “finta” borsa italiana. Ma anche questa cosa non va in porto.

Intanto lo strapotere dei player Vod crea il classico disastro all’italiana: i conti di Chili in otto anni sono sempre in rosso. Perché? Forse perché il modello di business è sbagliato? Forse dopo anni possiamo evitare di parlare di startup?

Sembra di no.

Solo nei primi cinque anni il servizio ha accumulato ben 25,5 mln di perdite così distribuite dal 2012 ad oggi: 1,8 mln nel 2012, 3,5 mln nel 2013, 4,2 mln nel 2014, 7,6 mln nel 2015, 8,4 mln nel 2016, anno in cui i debiti ammontano a quota 12,8 mln di euro. E parliamo di quando Netflix non esisteva. A gennaio 2020 l’ennesimo aumento di capitale, qui il resoconto.

In sintesi: una riduzione del capitale da 7,3 milioni di euro a 50mila (gli altri 7,2 milioni circa sono passati a riserva). Il piano di stock option prevede che se entro tre anni si verificherà un’operazione di exit, per un equity value dell’intera azienda pari ad almeno 40 milioni, Tacchia potrà sottoscrivere gratuitamente una frazione del capitale. Ci si prepara alla fuga?

E i ricavi? Ultimo dato disponibile: settembre 2020 Chili registra l’ottavo anno consecutivo in perdita, oltre 19 milioni di euro che si sommano al pregresso di 62 ,5 milioni di euro circa. Vi ricorda qualcosa? Qualcosa tipo Alitalia?

Se esistesse un mercato finanziario e cioè se fosse quotata ad esempio sulla borsa americana Chili sarebbe fallita o acquisita?

È molto probabile. Non necessariamente per incapacità dei soggetti coinvolti, anche se qualche dubbio viene, ma sicuramente perché il mercato in cinque anni è cambiato e lo Svod sta trionfando.

Com’è cambiato e sta cambiando il settore? Per farsi un’idea, basta leggere questo articolo. Per le quattro categorie di competitor in gioco, invece, qui.

Ma ecco intervenire la salvifica Cassa Depositi e Prestiti. E qui il racconto si fa epico e arcitaliano. La geniale idea non è di Franceschini ma comincia a circolare nel 2018, il Conte 1, e viene lanciata dal tuttologo dalla mille competenze trasversali Di Maio che, all’epoca era anche ministro allo Sviluppo Economico con delega alle telecomunicazioni. Per telecomunicare la sua posizione il ministro usa il misterioso “blog delle stelle”.

La tesi, molto propagandistica, è sempre la stessa: creatività, giovani imprese, italianità, e il capolavoro di un auspicio da futurologo: “Se riusciremo anche a sviluppare delle piattaforme italiane che hanno successo mondiale sarà un ritorno incredibile su tantissimi fronti. Su questo devono interrogarsi anche le grandi aziende culturali del Paese, in primis Rai e Mediaset

Successo mondiale!

Altra tappa: è il 18 aprile 2020 e Franceschini annuncia da Gramellini, su Raitre, che ci stanno ragionando.

La cosa la fanno davvero! Ma manca la legge!

Per risalire al testo decreto bisogna fare una ricerca certosina e folle. E’ stato sepolto in mezzo a mille altre cose. Art 183  Decreto rilancio maggio 2020 pagina 217 comma 10.

Il testo è un capolavoro che dice tutto, tutto, sul burocratese, la scarsa comprensibilità e trasparenza e l’assoluta impossibilità di investire in questo paese.

Persino il nome dell’ente erogatore diventa un altro, il misterioso “Istituto nazionale di promozione” che è in realtà Cassa Depositi e Prestiti.

“10. Al di fine di sostenere la ripresa delle attività culturali, il Ministero per i beni e le attività culturali e per il turismo realizza una piattaforma digitale per la fruizione del patrimonio culturale e di spettacoli, anche mediante la partecipazione dell’Istituto nazionale di promozione di cui all’articolo 1, comma 826, della legge 28 dicembre 2015, n. 208, che può coinvolgere altri soggetti pubblici e privati.

Con i decreti adottati ai sensi dell’articolo 9, comma 1, del decreto-legge 8 agosto 2013, n. 91, convertito, con modificazioni, dalla legge 7 ottobre 2013, n. 112, e con i decreti adottati ai sensi della legge 14 novembre 2016, n. 220, per disciplinare l’accesso ai benefici previsti dalla medesima legge, possono essere stabiliti condizioni o incentivi per assicurare che gli operatori beneficiari dei relativi

finanziamenti pubblici forniscano o producano contenuti per la piattaforma medesima. Per le finalità di cui al presente comma è autorizzata la spesa di 10 milioni di euro per l’anno 2020”. Qui il link.

Prima domanda a Franceschini: lei se fosse un privato investirebbe mai in un paese che scrive i decreti così?

Seconda domanda: Perché non è stato mai pubblicato un bando o quantomeno è introvabile per verificare altri competitor rispetto a Chili? Si tratta di un Beauty contest e cioè di un assegnamento per soli soggetti con caratteristiche prestabilite? E in caso: perché non dirlo e chi erano gli altri?

Terza domanda: Cosa aggiunge Chili come valore aggiunto? Qualcuno ha calcolato le asimmetrie che questo tipo di investimenti, ammesso e non concesso che abbiano un ritorno, creano su altri settori della filiera come le sale cinematografiche e le sale da teatro?

Quarta domanda: qualcuno ha verificato che tra i soci di Chili non ci fossero realtà che eludono la tassazione italiana? Ad un primo sguardo ad esempio a chi appartiene il Fondo Capsicum emanazione lussemburghese di Negentropy Capital Partners società londinese di Ferruccio Ferrara? Dove pagano le tasse? E la Torino Investimenti Spa dei Lavazza?

Tanto per chiedere e senza polemiche visto che sono soci di Chili e lo Stato sta per dare 20 milioni di euro.

Ma in più c’è anche l’aspetto culturale in ballo. E qui la buona fede di Franceschini, che probabilmente non sa di cosa parla, è evidente. L’idea di Franceschini è: “Creare un posto dove il pubblico possa trovare tutte le produzioni teatrali e musicali, ma anche museali. E monetizzarle creando una fonte di ricavi aggiuntiva

L’idea, sulla carta e cioè nel pensatoio suo e dei suoi consulenti, è apparentemente buona soprattutto perché non considera le conseguenze e non solo quelle economiche; ma forse non presuppone anche un pubblico passivo ed educabile al consumo culturale che semplicemente non esiste?

Preserva apparentemente il feticcio cultura garantendo uno spazio protetto ma non si sa bene per quale alchimia dovrebbe garantire anche un pubblico. Magia? In questo caso peraltro un pubblico anziano che dovrebbe avere una smart tv , un collegamento internet , una carta di credito e a cui non bastino i 16 canali tematici della Rai. Un pubblico di anziani 4.0 più svegli dei nipoti in grado di navigare in quest’offerta “necessaria” anche se nessuno o quasi sa che esiste.

Qualcuno poi ha calcolato il cambiamento delle abitudini di consumo del pubblico, se esiste, quali ricadute economiche possa avere su altri settori della filiera?

Perché sembra che quest’operazione non abbia costi e invece li ha.

Per non parlare del fatto che si entra in una realtà culturalmente assai complessa e in piena evoluzione con mille problemi all’interno e mille dibattiti culturali e economici in corso. Ad esempio la convergenza e divergenza di pratiche industriali con pratiche di consumo, gli ecosistemi narrativi, la crossmedialità, come creare valore da pratiche di consumo diversificate, che valori reali abbiano i possibili servizi ancillari, come funziona la negoziazione costante con un pubblico di prosumer che non è il pubblico che ha in mente Franceschini.

Un pubblico, qualcuno lo dica a Franceschini, che non esiste.

“Dagli scavi di Pompei al Palio di Siena, da Capodimonte alla Mostra del Cinema di Venezia, dai musei e le mostre di arte al teatro, ai concerti, al cinema, passando per la “visual art”, le performance, gli Uffizi, la musica leggera, il turismo, l’opera, il balletto o il territorio: tutto con un sistema di “ticketing”.

Franceschini si affretta a precisare. Dal virgolettato nell’articolo di Riccardo Luna di Repubblica: “Il San Carlo ha venduto la prima della Cavalleria Rusticana a 18 mila persone tramite Facebook. Il mio timore non è che l’idea non funzioni, è di arrivare tardi”.

Arrivare tardi rispetto a cosa?

Perché, infatti, se io ho a disposizione Facebook, cioè la più potente agenzia pubblicitaria al mondo ai prezzi più bassi del mondo, che potrebbe fare da piattaforma di promozione e strutturare anche il ticketing e la trasmissione del contenuto, ho bisogno di dare 19 milioni di euro a Chili?

Con 19 milioni di euro di promozione di prodotto per quanti anni promuoverei la cultura italiana? Quanti aiuti potrei dare ad altri soggetti di filiera? Magari altrettanto deboli e minati da questa crisi?

E soprattutto perché usare il cash e non le leve fiscali? Iva, detassazione, credito d’imposta?

Viene il dubbio che ci sia dietro una logica da film di genere con l’assalto alla diligenza e senza troppi indiani: pochi, maledetti e subito dove, in questo caso, non sono neanche tanto pochi.

Eventi, Festival e Anteprime

Altre News

Articoli Correlati