La consapevolezza del grigio. “The Road” al tempo della pandemia

di Leonardo Rafanelli

Ci sono storie che hanno bisogno del momento giusto. Le narrazioni, proprio come i fatti, succedono, passano e a volte tornano indietro, magari dopo un po’ di tempo.

Il momento giusto per The Road di John Hillcoat, trasposizione cinematografica dell’omonimo capolavoro di Cormac McCarthy, potrebbe essere arrivato adesso; paradossalmente, a dieci anni dalla sua uscita nelle sale italiane.

In questi mesi del 2020 le nostre giornate sono segnate da aggiornamenti che ci raccontano di come una pandemia globale stia rimettendo in discussione la solidità del mondo che avevamo costruito. Abbiamo cantato dai balconi cercando un senso di comunità di fronte all’emergenza, per poi iniziare a guardarci reciprocamente, come fa chi vuole trovare un responsabile. Abbiamo toccato con mano la fragilità delle soluzioni, scoprendo al contempo di non avere altra scelta che continuare a perseguirle caparbiamente.

Potrebbe allora venire fin troppo facile l’accostamento con una storia che ci racconta di un mondo rovinato in cui la sopravvivenza è l’unica priorità. The Road, tuttavia, va oltre l’assonanza, lasciando da parte la costruzione del contesto e dello scenario catastrofico per dirigersi brutalmente verso la dimensione che in qualche modo ci riguarda di più e ci fa più paura: quella delle dinamiche umane.

Per rintracciare un segno di questa peculiarità basta guardare la storia della distribuzione cinematografica della pellicola. All’inizio del 2010, infatti, chi si chiedeva quando The Road sarebbe arrivato nelle sale italiane si era ritrovato con una risposta piuttosto singolare: “forse mai”. E le perplessità sotterranee che in quei mesi risalivano in superficie fino ad affiorare sulle pagine di quotidiani e blog, non avevano a che fare con la qualità del film. Si diceva che la vicenda fosse “troppo cupa, troppo deprimente” per il nostro pubblico.

Pesavano, va detto, i risultati modesti riscontrati nei botteghini americani, ma al progetto i punti di forza non mancavano: primo fra tutti, il porsi come l’adattamento di un libro epocale, poderoso, di quelli che si possono appunto definire capolavori senza stare a pensarci troppo su. Cormac McCarthy, poi, era già stato portato sul grande schermo con quel Non è un paese per vecchi che agli Oscar del 2008 era valso ai fratelli Coen le statuette per il miglior film, la miglior regia, la miglior sceneggiatura non originale e il miglior attore non protagonista. The Road aveva interpreti di grosso calibro, come Viggo Mortensen e Charlize Theron, più una colonna sonora firmata da Nick Cave e Warren Ellis. Era stato presentato in concorso alla 66ª Mostra del Cinema di Venezia. E dietro la macchina da presa c’era un regista, John Hillcoat, che nel 2005 si era fatto decisamente notare con l’atipico western La Proposta.

Le incertezze, in ogni caso, sono durate pochi mesi. The Road è uscito in Italia il 28 maggio del 2010 distribuito dalla Videa-CDE, e l’amara etichetta che aveva accompagnato i dubbi sulla sua diffusione in sala oggi resta buona giusto per farsi qualche interrogativo, che però ha più il sapore di una domanda retorica che di una vera e propria riflessione. Eppure la questione resta significativa se la si pensa come punto di partenza per un esperimento: che effetto ci fa rivedere quel film “troppo deprimente” in uno dei periodi più emotivamente problematici della nostra storia recente?

Ognuno, certo, darà risposte diverse, e c’è da dire che effettivamente The Road non fa molto per ingraziarsi chi cerca nel cinema un divertissement o una prospettiva confortante. La trama è scarna, essenziale: tutto il pianeta è stato devastato da una non meglio precisata catastrofe, forse legata a un’esplosione nucleare, forse no. Nubi spesse coprono perennemente il sole, non ci sono più animali e gli alberi morti si ergono come spettri che recuperano una qualche fisicità solo nel momento in cui collassano e crollano a terra. Restano pochi esseri umani alle prese con la lotta per la sopravvivenza, e tra questi ci sono un bambino e suo padre che attraversano le macerie di quelli che un tempo erano gli Stati Uniti d’America, sperando (o forse illudendosi) di trovare più a sud un clima migliore.

L’intreccio è ridotto all’osso, proprio come lo sono le dinamiche con cui i personaggi devono fare i conti. La fame, la paura, l’impossibilità di credere in un futuro, fanno da innesco a un conflitto costante, dove la pratica del cannibalismo diventa sia il pericolo esterno che incombe sui protagonisti, sia il terrore ancestrale di fronte al rischio di poter perdere l’essenza della propria umanità.

È il grigio a dominare l’universo scenico di questa pellicola: il grigio della fotografia che incornicia le vestigia del mondo che conosciamo, ma anche il grigio che domina l’interiorità di ogni personaggio. E forse il punto di forza di The Road sta proprio qui. È stato detto che questa storia mette nettamente a contrasto i buoni e i cattivi, e dopotutto è uno degli stessi protagonisti, il bambino, a richiedere continuamente rassicurazioni in merito, rimarcando la sua necessità di appartenere al novero di chi ancora può dirsi schierato dalla parte giusta. Ma le cose stanno diversamente: i momenti di luce e quelli di ombra, in questo film, non si contrappongono mai in maniera definitiva. Basti pensare al padre, che mosso dall’amore incondizionato per il figlio gli insegna a usare la pistola, offrendogli la possibilità del suicidio come ultima via di fuga. Oppure ci si può soffermare sulla conversazione quotidiana e “innocente” che sentiamo fare a un gruppo di cannibali dopo averli visti tenere prigionieri altri esseri umani da utilizzare come “bestiame” per nutrirsi. La messa in scena rimarca questa labilità di confini, con luci che non brillano mai abbastanza, e un cielo che è scuro, ma mai completamente nero. Non ne scaturisce una prospettiva confortante, ma una dimensione indefinita in cui l’impossibilità di un futuro rende fragilissimo il senso delle azioni nel presente, tanto che la lotta per mantenere la propria umanità diventa cruciale come quella per la sopravvivenza.

Può farci bene, questa consapevolezza del grigio, soprattutto in un momento dove sentiamo la necessità di comportarci come una collettività, mentre ci tormenta la tentazione di autoassolverci come singoli individuando colpevoli e capri espiatori. Vale la pena, forse, riguardare un film che ci ricorda che è proprio in queste tonalità di colore ambigue che si può fare una differenza.

Certo, i fotogrammi di The Road poggiano su pilastri che arrivano da un romanzo di rara potenza, non a caso premiato nel 2007 col Pulitzer. Cormac McCarthy trasforma oggetti comuni e  scelte lessicali in chiavi d’ingresso per il mondo che immagina, costruendo un contrappunto tra tenerezza, bellezza selvaggia, disperazione e orrori su cui persino la macchina da presa esita a indugiare. D’altro canto, la trasposizione sullo schermo è tutt’altro che perfetta: nonostante la recitazione di grande livello, non sempre si riesce a empatizzare fino in fondo coi protagonisti, e il montaggio in alcuni passaggi non convince. Ma si tratta, in fin dei conti, di piccole sbavature che non intaccano la forza di un film riuscito, forte, in grado di riproporre una storia che scava in profondità, pur partendo sconfitto in partenza nel confronto con il libro da cui è tratto.

Sono meccanismi tipici di un filone ben noto: quello della fantascienza distopica. The Road mette sul piatto una vicenda che appare profondamente diversa dalla spietata precisione del Mondo Nuovo di Aldous Huxley o dalle iperboli urbane di Isaac Asimov, ma che pure nella sua trasposizione cinematografica tocca gli stessi tasti fondamentali, e ci interroga lungo quel filo che collega persino Il vecchio e il bambino di Francesco Guccini e i due capitoli della recente saga videoludica The last of us. L’anziano della canzone, il Joel del videogioco, e anche il padre senza nome di The Road, in fondo, ci piacciono perché vanno tutti incontro allo stesso abisso: quello di chi è pronto a pagare il prezzo di una inevitabile sconfitta, pur di non lasciare andare quello in cui ha creduto. È una prospettiva dolorosa, per certi versi scioccante, ma non “deprimente”, perché ne emerge una nota dolce, quasi salvifica. Del resto, è lo stesso protagonista di The Road a ricordare al figlio che “quando fai brutti sogni, significa che stai ancora lottando”.

Eventi, Festival e Anteprime

Altre News

Articoli Correlati