“Mi fanno male i capelli” – Monica Vitti e le parole di ‘Deserto Rosso’

Monica Vitti Deserto Rosso

di Ludovico Cantisani

Ci sono incontri che cambiano la storia del cinema. E ci sono singoli ruoli che fanno fare passi da giganti alle possibilità drammaturgiche del grande schermo, portando al contempo nuova coscienza sul ruolo della donna nella società. L’incontro tra Michelangelo Antonioni e Monica Vitti sul finire degli anni cinquanta ha cambiato la storia del cinema – e rischiò di cambiare anche la storia del teatro, dal momento che la prima collaborazione tra i due, mettendo da parte un ruolo nel doppiaggio de Il Grido, fu la messinscena di Scandali Segreti, una delle poche regie teatrali del regista ferrarese. Antonioni e la Vitti seppero andare ben oltre le banalità del rapporto tra artista e “musa”, creando una relazione intessuta in una collana di ispirazioni reciproche.

Assieme, con la Vitti sempre protagonista o co-protagonista, crearono i tre film della cosiddetta “trilogia dell’incomunicabilità” – L’Avventura, La Notte, L’Eclissi – per poi, potendo girare per la prima volta a colori, portare il cinema e la sua drammaturgia a un nuovo livello di consapevolezza con Deserto Rosso.

Deserto Rosso è uno dei crocevia del cinema italiano e mondiale. Fruttò ad Antonioni il Leone d’Oro alla Mostra del Cinema di Venezia nel 1964, aprendo la strada al successo internazionale del successivo Blow-Up. E consacrò definitivamente Monica Vitti come interprete di altissimo rango, grazie all’interpretazione del ruolo di una nevrotica che solo Gena Rowlands seppe replicare, dieci anni dopo, con A Woman Under the Influence di John Cassavates.

L’importanza storica di Deserto Rosso è molteplice. C’è innanzitutto un discorso saliente sul colore: Antonioni, coadiuvato dal grande direttore della fotografia Carlo Di Palma, nel Deserto Rosso inizia le sue sperimentazioni cromatiche, che lo portarono a teorizzare una vera e propria “drammaturgia del colore”, fatta non di regole bensì di intuizioni, negli anni successivi. L’attenzione coloristica ad ogni singolo elemento che compone l’inquadratura è altissima, e, inevitabilmente, uno dei colori più ricorrenti e perturbanti è il rosso. È rimasta però nota e quasi leggendaria la richiesta che Antonioni un giorno fece alla produzione, di ricolorare un intero bosco di bianco per meglio riflettere l’interiorità travagliata della protagonista – richiesta che venne faticosamente accettata, ma che un acquazzone notturno vanificò.

Al centro di Deserto Rosso non c’è però il colore, c’è il più incisivo personaggio di Monica Vitti. Già la Claudia de L’Avventura, la Valentina de La Notte e la Vittoria de L’Eclisse erano stati caratteri sorprendenti e innovativi, con un’introspezione psicologica unica, per certi versi inaspettata da parte di un regista uomo – ma con questa Giuliana su cui tutto Deserto Rosso è costruito Antonioni e la Vitti ottennero un risultato ancora più pregnante, e difficile da definire. Del resto, definire Giuliana “nevrotica” è esatto, ma riduttivo. Lei ha anche tentato il suicidio, prima che la storia del film abbia inizio, e questo episodio della sua backstory viene continuamente ricordato ma camuffato dagli altri personaggi che la circondano, e che parlano sempre di un “incidente” – salvo poi entrare nel panico quando la donna brevemente scompare, e la rivedono al volante della macchina come quel giorno.

“Non sta mai fermo. Mai. Mai, mai.
Io non riesco a guardare a lungo il mare.
Se no tutto quello che succede a terra non m’interessa più”.

Se uno dei grandi pregi di Deserto Rosso sono i dialoghi, un tratto particolarmente innovativo e perturbante è la mutevolezza di Giuliana, un vero e proprio punto di fuga rispetto ad ogni etichetta e codificazione. Sarebbe stato facile descrivere una depressa come una donna costantemente triste: Giuliana invece è depressa proprio perché ha improvvisi scatti di gioia, di vitalità, di un’allegria che sembra essere più che altro l’esorcismo malcelato di un inquieto mal di vivere – “ho voglia di fare l’amore!”, urla dopo aver mangiato delle uova di quaglia, suscitando l’ilarità del presente. Ma il suo è un tentativo fallito di auto-normalizzazione, di introiettare in se stessa le regole sociali di quel gruppo in cui vive, ma che non ha mai sentito “suo”.

“Io ho fatto di tutto per reinserirmi nella realtà, come dicono in clinica”,
dice la Vitti a un certo punto del film.
“Si direbbe che ci sono riuscita. Sono riuscita perfino a essere una moglie infedele”
.

In realtà, ha completamente fallito. Giuliana è sradicata – tutti i grandi personaggi di Antonioni lo sono. Ma forse questa sradicatezza è la sua salvezza. Forse questa sradicatezza è la sua unica speranza di riscatto, di fronte alla banalità e alla volgarità delle persone e delle architetture industriali che la circondano.

Aiutami! Aiutami, ti prego! Io ho paura di non farcela! Ho paura!” –
“Non fare così, calmati. Perché hai paura? Di che cosa?” –
“Delle strade, delle fabbriche, dei colori, della gente, di tutto!”.

La vera innovazione drammaturgica e stilistica di Deserto Rosso, ciò che rende il personaggio della Vitti un perno centrale come forse non era mai successo prima, drammaturgicamente parlando, nella storia del cinema, è che il primo lungometraggio a colori di Michelangelo Antonioni porta il concetto di character-driven story verso orizzonti che tuttora sono raramente sfiorati. Tutte le storie o quasi sono costruite attorno a un personaggio, è una banalità: l’originalità di Deserto Rosso sta nell’intensificare il personaggio a discapito della storia, costringendo noi spettatori a guardare il mondo con gli occhi di Giuliana piuttosto che a guardare Giuliana con gli occhi con cui il suo mondo, che in fondo è anche il nostro, la guarda.

Mi spiego: la “trama” di Deserto Rosso è secondaria, insignificante, “sfilacciata”, la si può riassumere in due righe. Una donna appartenente all’alta borghesia industriale di Ravenna, con un figlio e soprattutto con molti problemi mentali a impensierirla, tenta invano di stringere una relazione con Corrado, un amico costantemente in viaggio di suo marito. Questa storia di adulterio, più desiderato come evasione che effettivamente consumato come passione, è però meramente pretestuosa per articolare attorno a Giuliana un carnevale di visioni. Ciò che Giuliana vede, ciò che raramente ricambia il suo sguardo, sono da un lato questi altoborghesi privi di quell’autocoscienza assassina che, nel bene e nel male, il personaggio della Vitti ha – dall’altro lato, degli scenari industriali disarmanti, sospesi tra la bellezza, l’artificiosità e la tossicità, come in quella scena indimenticabile in cui i fumi tossici si sollevano dalla ciminiera della fabbrica del marito di Giuliana, sotto lo sguardo ammirato di lui e di quel Corrado con cui Giuliana tenterà di avere una liaison. “C’è qualcosa di terribile nella realtà, e io non so cos’è. Nessuno me lo dice. E neanche tu mi hai aiutata, Corrado”, sarà l’amara conclusione della ragazza.

Antonioni aveva sempre sostenuto una visione all’interno della quale le donne sono lo strato più sensibile della società, le migliori “antenne” di ogni cambiamento e mutazione che, spesso con esiti inconsapevolmente infausti, si affacciavano alla storia nel momento del boom economico. Giuliana è il correlativo oggettivo, o meglio il correlativo emotivo, di questo disagio di fronte al cambiamento storico. E se Pasolini parlerà dei rischi di uno sviluppo discinto dal progresso, Giuliana si limiterà a dire, in quella che in realtà è una reprise di un verso di Amalia Rosselli, “mi fanno male i capelli”. Questo non diminuisce la sua autocoscienza come personaggio né l’autocoscienza di Monica Vitti come attrice, tutt’altro. Se mai, anche se la sua Giuliana è un personaggio “di finzione”, ne intensifica l’importanza umana ed emotiva. E le ritaglia un posto privilegiato nella storia dell’immaginario cinematografico, anche a prescindere dall’autorialità del regista.

Dopo Deserto Rosso, qualcosa sarebbe cambiato. La Vitti ed Antonioni tornarono a collaborare nel 1980 con Il mistero di Oberwald, pionieristico esperimento tecnico che aprì la strada al futuro cinema in digitale, ma lì il malessere dei personaggi era cessato, la “crisi dei sentimenti” già non era più fra noi. Tra Deserto Rosso e Il mistero di Oberwald, la Vitti si era voluta completamente reinventare come attrice: diventando l’unica “mattatrice” della commedia all’italiana, e collaborando innanzitutto con Mario Monicelli ma anche con Alberto Sordi, Luciano Salce e diversi altri registi e attori comici del tempo in pellicole che, senza mai abbandonare l’analisi sociale, miravano a suscitare il sorriso più che una riflessione esistenziale. “Scoprire di far ridere è stato come scoprire di essere la figlia del re”, disse una volta la Vitti in un’intervista. Non disertò però mai il cinema d’autore più rigoroso, e arrivò a collaborare anche con Luis Buñuel nel suo penultimo film, Il fantasma della libertà.

È raro che un attore sappia proporre un discorso artistico, umano e politico autonomo, pur facendosi dirigere nella maggior parte dei film da altri registi. Ciò è, per ragioni contingenti ma effettive, ancora più raro per un’attrice. Questa rarità, in Italia, è stata Monica Vitti.

In apertura Monica Vitti in uno screenshot del film Deserto Rosso di Michelangelo Antonioni (1964)

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