L’Azzurro Scipioni e la biodiversità emozionale dei cinema romani

di Stefano Scanu

Un paio di giorni prima di natale sulla pagina Facebook di Silvano Agosti compare un post in cui il regista offre in vendita le poltrone dello storico cinema Azzurro Scipioni. Con appena cinquanta euro ci si può mettere in salotto un pezzo di Roma e della sua storia recente. In realtà si tratta più di una provocazione, una richiesta d’aiuto rivolta non tanto agli spettatori, quanto alle istituzioni culturali e alla politica. Un modo come un altro per cercare di arginare l’inesorabile trasformazione delle sale in avanzi di archeologia urbana e luoghi a perdere. Poi qualche settimana dopo pubblica un altro post che suona quasi come un commiato; gli appelli lasciano spazio ai ringraziamenti e dopo aver citato la congregazione dei frati domenicani che per oltre quarant’anni lo ha aiutato a tenere aperto il suo pidocchietto a due passi dal Vaticano, Silvano si lancia in una lucida analisi sulle vere cause di questa faccenda. Dentro poche righe c’è tutto: l’indifferenza dello Stato, l’emorragia di pubblico, la riduzione quantitativa e qualitativa dei film prodotti, il coronavirus e infine, come se non bastasse, pure la sua veneranda età.

Ora il punto non è tanto il luogo fisico che viene a mancare, dopotutto negli ultimi dieci anni nella capitale sono fallite oltre trenta sale e questo spazio pieno di comode sedute e schermi appena più grandi di quelli che abbiamo in casa, sarebbe solo l’ennesima che se ne va in malora; la questione è un’altra, riguarda la sopravvivenza dell’idea che c’è dentro, in un certo senso la sua biodiversità emozionale.

Da qualche tempo mi sono messo a mappare le sale romane, le ho sempre pensate  come dei presidi del tessuto cittadino, un po’ come si fa con gli ospedali, gli uffici municipali o quelli postali. Le ho fotografate, descritte, ho intervistato i cinematografari perché trovo sia un modo perfetto per raccontare la metropoli e i suoi quartieri.

Certo, negli anni ho dovuto cancellarne un bel po’ dalla piantina (l’Alcazar, il Filmstudio, il Fiamma, il Kino, solo per dirne alcuni), mentre la pagina delle sale sui quotidiani si assottigliava rapidamente, ogni riga in meno un epitaffio che la faceva assomigliare a una specie di Spoon River cinematografica. Mettendo per un attimo da parte la legittima nostalgia che si può provare per il luogo e le sue mura, quello che più viene a mancare è soprattutto la sua tipicità, l’anima di un cinema. C’è il Nuovo Olimpia che proietta solo film in lingua originale per riscaldare le serate degli expat, quello Dei Piccoli che pare un teatrino ambulante abbandonato nel bel mezzo di Villa Borghese, l’Ambasciatori che macina amplessi di celluloide a due passi dalla stazione Termini, e poi il Caravaggio, il Delle Province, il Tibur, il Tiziano e tutte quelle sale ospitate all’interno di una chiesa, alcune ancora oggi impegnate a fare le gimcane tra le censure dei pretini, a modo suo ognuna con la propria vocazione e personalità.

Ecco, l’Azzurro Scipioni di personalità ne ha da vendere, basterebbe il costo di un biglietto. Quando incontri Silvano Agosti nel suo cinema ti aggredisce una valanga cerulea: azzurri i suoi occhi, l’insegna, l’ingresso, le poltrone e perfino la sala. È  difficile stargli dietro, parla di filosofia, di politica e di sogni, quelli in cui Chaplin gli ordinava di salvare quel luogo dalla dismissione per trasformarlo in uno spazio dove ospitare solo i capolavori del cinema. La prima volta che andai da lui mi fece salire sopra, nella sala Lumière, per assistere a un montaggio di circa venti minuti che conteneva parti dei suoi film più belli.

Ero nel cinema di Agosti, a guardare opere di Agosti mentre Agosti, di sotto in carne e ossa, telefonava trafficando in cabina di regia; sarà pure un artista e un poeta ma quando serve diventa un pragmatico proiezionista di origini bresciane. Andare lì è un po’ come entrare in casa sua: ci sono le foto incorniciate, qualche ritaglio di giornale, i suoi libri, un lampadario dorato, dei vecchi proiettori e un tavolino di quelli che una volta si compravano insieme al telefono, su cui qualcuno ha messo una pianta di plastica e il libro delle firme.

Quella sera davano La legge del mercato e Il posto delle fragole, solo che nella sala Chaplin il primo film non si riusciva a far partire, eravamo non più di cinque spettatori e quando qualcuno propose di vederlo al piano di sopra, Silvano Agosti disse che era impossibile, che Bergman non si interrompe mai. Se non è personalità questa. In ogni caso il problema si risolse con tutti noi dentro la cabina di proiezione, stretti intorno al monitor di servizio a vedere il film di Brizé come una famiglia davanti alla tv.

Forse si potrà fare a meno anche dell’Azzurro Scipioni, come abbiamo fatto con il Rialto, l’Impero o l’Holiday, nonostante tutto Roma è ancora piena di sale e un film rimane sempre un film. Potremo moltiplicare i pollici del nostro televisore, abbassare le luci e qualche volta fare finta di stare al cinema senza neanche uscire di casa, si potrebbe perfino fumare, dopotutto il cinema è finzione. Saremo noi a scegliere la pellicola, noi gli esercenti, e sempre noi gli spettatori; ci passeremo i soldi da una mano all’altra dandoci appuntamento alla proiezione successiva davanti alla cucina, lamentandoci del traffico, oppure no, chi può dirlo, organizzeremo rassegne, omaggi e retrospettive per noi e da noi, sperando di non venirci troppo a noia e magari comodamente seduti su una morbida poltrona azzurra di seconda mano, presa per soli cinquanta euro.

 

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