The Painted Bird, un viaggio attraverso il male

di Mario Soldaini

Troppe volte i nostri occhi incrociano la sofferenza umana per prendere altre vie. Troppe volte i nostri desideri appannano le nostre memorie, disabituati alla bellezza e incapaci di coglierne il male. L’uomo che spera di morire è l’assurdo cui siamo da tempo costretti a riferirci. Abitanti di terre indifferenti, percepiamo il mondo solo con occhi asciutti, perché proprio quell’indifferenza ci ha tolto il velo umido del pudore.

Con gli occhi secchi, come vecchi che hanno pianto per una vita, ci nascondiamo dietro false morali che nient’altro raccontano se non le nostre ripetute ipocrisie. Così la televisione ci porta in mondi definiti secondo regole ovvie, dove il lieto fine condensa in maniera del tutto semplicistica la nostra storia, dimenticando quella banalità che il male da tempo ha realizzato. I nostri corpi intuiscono allora le sofferenze, ma non si fermano ad analizzarle. Il male che siamo costretti a guardare ci violenta nella sua semplicità e ci sembra poter passare via con una facilità davvero spaventosa. I nostri corpi squamati si permettono di far scivolare bellezze e mali sopra di sé, senza trovare il tempo per riferirsi a storie passate che invece tanto potrebbero ricordare.

In un mondo quindi destinato a bruciare con i propri sentimenti da tempo sotterrati, il film The Painted Bird tratto dal romanzo del 1965 di Jerzy Kosiński è invece l’unica chiave che da decenni cercavamo, per aprire o chiudere a seconda dei nostri cuori, le porte sulla vita. La storia ci porta negli occhi e ancora più, sul corpo di un bambino, il simbolo della fragilità, l’immagine passionale su cui la violenza viene aborrita e su cui si scavano facilmente i traumi delle società. Gli eventi che accadono nella storia condizionano le esistenze a partire proprio da quella giovinezza, fatta di mille cicatrici, una giovinezza colpevole delle malattie dell’inconscio, che attraverso la narrazione della storia recente, diviene la più grande fuga dalle cattiverie umane, dove duri esempi di realtà, offrono ancora spunti per ragionare.

Il male non ha tempi né luoghi e proprio per questo i 35 millimetri di pellicola di Vaclav Marhoul non si limitano mai ad una lingua, proponendo nei rari momenti di dialogo, un incontro con le altre culture. Perché se è vero che non esiste un solo pensiero, non può esistere nella sofferenza un solo modo di soffrire. La lingua in questo film diviene allora del tutto inutile, perché le culture che tocchiamo, sono culture del male a cui basta solamente la violenza delle immagini. Eppure quella crudeltà vuole intendere il sorriso di un bambino che in questo mondo finisce per essere solo un pianto. Così le fotografie che il grande regista Vaclav Marhoul propone, non sono pennellate sadiche e sproporzionate, ma gesti di amore incontenibile e funzionali alla trama che è sadica solamente perché reale.

Esiste allora un senso di giustizia diffuso che si oppone alla cattiveria e che in maniera del tutto sincera e oggettiva mostra ciò che non si vuole vedere. A volte nella storia per dimostrare il declino delle società, sono serviti grandi gesti, che avessero la forza di parlare assumendosi tutte le responsabilità. Diventa allora facile trovare pretesti per chiudersi gli occhi e fare la morale. Ergersi a censori e conformisti in questo mondo più che mai e soprattutto in contrapposizione netta a chi trova il coraggio per esporsi, tentando di mettersi in gioco con qualcosa di diverso e adoperando nuovi linguaggi, è cosa inutile, satura e banale. Solo chi ha coraggio e qualcosa da raccontare si espone così tanto, e in questo caso dimostra di amare la vita piuttosto che la morte.

Quando parliamo del corpo di Cristo e della metafora della vita, siamo infatti tremendamente vicini alla passione.  Allo stesso modo in cui amiamo piangere dinanzi al volto di Maria, che stringe il proprio figlio nel pianto, stringiamo quel corpicino che attraverso il male è ostaggio della società e senza difficoltà ne piangiamo ogni sofferenza.

Il film vive di quelle pennellate espressioniste  che ci conducono attraverso tutta la narrazione dalle pianure aride di un’opera fiamminga, alla Germania distrutta nel proprio Anno Zero. La drammaticità con cui parliamo sembra non avere fine e per questo racconta qualcosa di nuovo. Si rompono continuamente gli schemi, si svelano i tabù attraverso un linguaggio espressivo così reale da non essere mai, agli occhi di chi sinceramente le sappia guardare, violenti. Anzi il film ci sembra dire che la violenza è nella menzogna dell’immagine inautentica, in quella rappresentazione immorale e ipocrita che preferiamo rappresentare e quasi mai vogliamo vedere. La verità invece è nella sofferenza ed è sofferenza.

Camminiamo per questo passo dopo passo accanto alla morte, siamo confusi sopra i binari di una ferrovia, viaggiamo in treni che silenziosi portano ai campi di sterminio, eppure la vita in un racconto sincero, accetta ciò che ha dinanzi, riuscendo a trovare le forze per continuare a correre, rimandando quelle partite a scacchi contro la morte ai tempi che verranno, e vedendo nei grandi eventi del passato, la vera violenza che non può essere oggetto di falsi decori.

Proprio l’imprevedibilità della vita di un bambino e la sua forza di opporsi (dolcemente) al male, permettono al film di farci correre, senza mai annoiarci e cosa assai difficile, senza mai cadere nelle banalità.  Un film che nelle sue quasi tre ore riesce sorprendentemente a rinnovarsi e a non ripetersi, dove la cinematografia  di Vladimír Smutný ritrae i volti  nomadi fotografati da Koudelka. È attraverso quei sorrisi, attraverso quelle rughe che gli stagni torbidi divengono sorgenti d’acqua pura. A transitare le forme ci pensano quelle fotografie nere e bianche che in contrasti acuti e terribili esplicano il significato del bene e del male, alludendo ai pensieri cardine delle società.  Non è difficile allora vedere come un’idea antica (la Luce per i Manichei,Yin e Yang per i Taoisti) sia qui strumento di comprensione proprio per la realtà, così autentica perchè emotiva. Quella luce che deve comporre il colore, finisce per negarlo limitandosi a scomporre la storia in due nitidi estremi. E’ la magia penetrante del bianco e nero, viva attraverso i lunghi piani sequenza, sofferente negli stacchi continui, iconica nei fermo immagine.

Non è allora il sangue a rendere cruento il film ma lo sono i gesti che disumani riportano l’uomo nei propri stadi primitivi. Tanto siamo vicini alle violenze che Kubrick aveva raccontato, tanto ce ne allontaniamo. Infatti seppure questo film appaia in profonda diffidenza con la società e veda la violenza come pratica diffusa ed imitabile, allo stesso tempo sembra intraprendere una lotta con la propria purezza, che è il corpo di un bambino.

La sua vita ha bisogno di leggerezza, apparendo paradossalmente come necessaria di tutto. Un film che non dà risposte ma preferisce tacere, lasciando correre le repliche nelle lacrime che la storia ha portato. Una scelta stilistica non da tutti, anzi da pochissimi, visto che giornalmente gli stupidi divengono intellettuali pronti a sommergerci di false risposte.

Siamo pronti allora ad accettare il male per aspirare al bene, coscienti che le nostre differenze siano semplici pennellate sulle nostre ali. Coscienti che il nuovo mondo esista in un’unità non convenzionale e che le differenze sono imposte (create) solo da chi ne voglia godere.

L’uccello dipinto si pone le domande più importanti del genere umano e lo fa mascherato nella violenza, perché unica chiave universalmente riconosciuta e straordinariamente efficace, sia nel bene che nel male. Una castrazione che invita alla libertà proprio come ”privatio” e che si riassume nella metafora del fanciullo che vedendo il tutto nel nulla, trova anche la forza per andare avanti. Un uomo ma ancora più un bimbo, che viaggia come Odisseo senza nome, riuscendo a vivere nello stesso modo con cui subisce le sofferenze.

Nel tempo in cui i nostri occhi (le nostre coscienze) sono complici dei numerosi delitti cui vogliamo sottrarci, in cui le immagine iconiche rimandano a guerre come fatti lontani (Vietnam), nel tempo in cui le differenze sono il male, e le televisioni ostentano ignoranza alimentando il mercato gratuito della violenza, una nuova presa di coscienza scuote i nostri corpi, non più indifesi. Facendoci dimenticare ogni nome, per il semplice fatto che le storie di sofferenza, non hanno più croci per piangere.

 

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