Cinema Il Caravaggio. La rivincita dei monosala tra scommesse e grandi storie. Intervista con Gino Zagari

Il Caravaggio Cinema Roma

di Leonardo Rafanelli
“Andare al cinema” è un’espressione che in questi giorni ha un retrogusto strano. Ci si pensa in modo diverso, e forse, dopo quest’anno di chiusure, siamo tornati a vederla più come un’esperienza che non come un mero strumento per vedere un film appena uscito. Per molti di noi si tratta di un qualcosa che ha ormai caratteristiche precise: grandi parcheggi, centri commerciali sfavillanti in cui perdersi prima di raggiungere la sala, schermi digitali in cui scorrono decine di film tra cui a volte è difficile scegliere. Ma lontano da tutto questo c’è un altro mondo che fa quasi da contraltare: quello dei monosala. Spesso è visto come una sorta di terra di frontiera, a metà tra il retaggio di un’epoca lontana e l’esperienza riservata agli appassionati duri e puri. C’è chi lo vede come un qualcosa non lontano da un museo, o come un’attività che ha comunque a che fare coi ricordi. Nulla di più sbagliato.
Nel cuore delle città i cinema monosala ritornano, resistono e addirittura crescono, forti del legame coi quartieri, con le persone, con le esperienze da condividere. E potrebbero essere proprio queste sale, frequentate da un pubblico fedele che cerca un’esperienza anche oltre la visione, a contribuire alla spinta necessaria dopo lo stop per la pandemia.
Gino Zagari, 54 anni e originario di Napoli, gestisce il cinema Il Caravaggio, che è proprio una di queste sale, e si trova vicino a Piazza Verdi, a Roma. Un cinema che sembrava destinato a rimanere confinato nelle memorie di qualche vecchio avventore, e che invece è rinato e si prepara a rinascere ancora, in questo periodo di ripartenza.

Cominciamo subito dal Cinema Il Caravaggio: un monosala nel bel mezzo dell’epoca dei multisala.

Noi siamo in effetti l’ultima monosala riaperta in ordine di tempo nel Lazio. Una vera e propria scommessa, e direi una scommessa vinta. Tutto è cominciato quattro anni fa, quando abbiamo rilevato una sala parrocchiale in zona Trieste-Salario. Era un’area in cui la maggior parte delle sale avevano chiuso definitivamente. Abbiamo rinnovato tutto: poltrone, arredi, impianti, audio. Il nostro obiettivo era creare un salotto cinematografico, con un’attenzione particolare ai servizi, alla qualità, alla pulizia e alla visione. 

Da cosa è nata l’idea di fare questa scommessa?

I segnali intorno a noi erano chiari, e tutto parlava di una crisi strutturale di questo tipo di cinema. Ma noi siamo sempre stati convinti che la monosala, per le modalità di offerta e per la tipologia di pubblico che la frequentava, potesse avere davanti un nuovo futuro. Abbiamo scelto di rivolgerci non tanto ai giovani, che frequentano di più le multisale, ma al pubblico di quartiere, magari più adulto. E all’interno di questo progetto abbiamo aperto a fianco pure un wine bar, dove offriamo vino, caffè e infusi: niente popcorn e niente Coca-Cola.

Quanto ha pesato l’identità del quartiere nel successo del progetto? Sarebbe stato diverso, secondo lei, in un’altra zona di Roma?

Bisogna dire che i cinema sono un po’ da sempre un’attività di prossimità. Un tempo si frequentavano le sale che stavano entro un raggio di 20 minuti a piedi. Ma è così anche per i multisala, dove si va a calcolare il bacino di utenza scegliendo una distanza di circa 40 minuti in macchina. I cinema di città hanno sempre avuto un legame forte coi quartieri, e di questa identità bisogna tenere conto. Per noi ha voluto dire rivolgersi a un pubblico adulto, culturalmente preparato e pure con un livello di reddito alto. In una zona diversa, come il Pigneto o Testaccio, ci saremmo mossi diversamente, anche e soprattutto dal punto di vista della programmazione.

Cinema Il Caravaggio

A proposito di programmazione, di che tipo è quella de Il Caravaggio? Quali sono state le scelte con cui avete riscontrato più successo?

La nostra è una programmazione d’essai, ma è tutt’altro che rigida. Abbiamo comunque fatto delle scelte: niente effetti speciali e niente esplosioni. Direi piuttosto che noi andiamo a ricercare un “cinema delle emozioni”, che dà l’opportunità di vedere grandi storie sul grande schermo. E in questo senso non mancano le sorprese: uno dei film che è andato meglio, che era un po’ una scommessa nella scommessa, si chiama Frantz. Un film in bianco e nero, una bellissima storia di amore e di guerra. Tra il nostro pubblico ha avuto un successo straordinario nonostante non fosse a colori, nonostante non ci fossero attori di fama, e insomma, nonostante il formato potesse apparire “antico”. Altri film rivolti invece a un pubblico più giovane, pur con attori noti e storie tratte da libri di successo, non sono andati altrettanto bene.

C’è chi dice che il pubblico delle sale cinematografiche stia invecchiando. È d’accordo?

Bisogna ammettere che siamo una nazione in cui la piramide anagrafica è al contrario rispetto, ad esempio, a quella degli Stati Uniti. Ci sono più anziani che giovani, e quindi andare a sviluppare un settore guardando solo a un certo tipo di pubblico è una scelta miope. I pensionati oggi sono tra le categorie con più reddito disponibile e con più tempo libero, eppure per vent’anni non si è pensato di rivolgersi a questo segmento. Ora è diverso, e in questo senso noi non siamo un caso isolato: basta pensare al Quattro Fontane a Roma, o all’Anteo a Milano.

Com’è il rapporto coi distributori?

Non facile, nell’industria cinematografica c’è ancora molto da fare. Spesso non si guarda ai numeri che fanno le singole sale, e invece si dovrebbe tener conto di quante persone entrano sulla base degli spettacoli, e non soltanto di quante ne entrano in assoluto. Se ho una sala da 10.000 posti farò sempre più numeri di una sala da 100 posti, ma quando quella sala da 100 posti ce l’ho sempre piena, forse qualche domanda me la devo fare. Certo, ci sono anche distributori che comprendono la nostra politica. Si può dire che è un processo in evoluzione. E c’è da aggiungere che la pandemia sembra aver accelerato le cose, spingendo ancora di più verso la segmentazione del pubblico.

La pandemia sembra aver dato anche una spinta alle piattaforme di streaming. È preoccupato di fronte alla necessità di riportare il pubblico in sala?

Da troppo tempo ormai sostengo che l’obiettivo sia portare la gente in sala a gustarsi un prodotto cinematografico, ma per il piacere di andare in sala e non per il piacere di vedere il film, di cui si può fruire in tanti modi. Quindi non sono particolarmente preoccupato per la presenza di film anche sulle piattaforme. Certo, un tempo di esclusiva per le sale cinematografiche è auspicabile, anche se sicuramente non sarà quello di prima della pandemia, ovvero 105 giorni. Ma forse tutto questo tempo non serviva nemmeno alle sale cinematografiche. La visione domestica è un altro tipo di consumo, mentre a me preoccupa di più la presenza di altre attività ricreative fuori casa, oppure lo strascico che questo periodo potrebbe lasciare relativamente alla disponibilità a ritrovarsi insieme in spazi collettivi.

Cinema Il Caravaggio

Quindi, sale come esperienze e non come semplici strumenti per la visione di un film.

Proprio così. E per fare questo è necessario offrire al pubblico un altissimo livello qualitativo di proiezione, di servizi, di pulizia e di accoglienza. Le tre chiavi sono gentilezza, serenità e pulizia. Le piccole sale vanno viste un po’ come le boulangerie, o le botteghe alimentari di alto livello.

In questo periodo una domanda è inevitabile: come è stata per voi la fase della chiusura?

Il settore cinematografico è stato meritevolmente aiutato, durante questi mesi difficili, ma non ad un livello soddisfacente.  Gli aiuti che abbiamo ricevuto ci hanno permesso di andare avanti, ma si potevano fare anche altri interventi, che invece sono mancati. Non si è intervenuti sui costi fissi, che hanno continuato a pesare per tutto il periodo di chiusura.

Si poteva riaprire prima, secondo lei?

Secondo me non si doveva proprio chiudere. Le sale cinematografiche sono e restano uno dei luoghi più sicuri. Abbiamo il controllo della temperatura, abbiamo il distanziamento, abbiamo le mascherine, abbiamo la sanificazione. E potevamo offrire alle persone – non dico in zona rossa, ma nei periodi meno problematici – un minimo di svago e un minimo di serenità psicologica. Oggi, invece, ci troviamo con una ripartenza segnata anche da un periodo di depressione degli individui. Noi siamo forse l’unico posto dove il virus non sarebbe circolato.

E ora che finalmente si riparte, su quali film si dovrà puntare?

Per i multiplex e per la ripresa del settore in generale servono i grandi titoli, che fanno da richiamo. Ma il successo di film come Nomadland, nonostante la distribuzione in contemporanea con le piattaforme in streaming, è un segnale positivo per tutti, perché dimostra che quando ci sono i buoni film la gente va in sala. 

Dalla sua storia si vede bene che le sfide non la spaventano. Come si vince adesso la sfida della riapertura?

Voglio premettere che dai colleghi e dalla loro esperienza ho solo da imparare. Ma se qualcosa posso dire, è che secondo me è sempre necessario spingere lo sguardo oltre il proprio settore. E parlando strettamente di cinema, sarà necessario puntare anche sulle donne, che in questo momento sono quelle che si misurano di più con la realtà e con le difficoltà. Possono salvarci in vari modi: in questi tempi di pandemia, e anche nel cinema. Pensiamo al contesto americano: lì le autrici, le registe e le attrici femminili possono portare quella sensibilità che un po’ manca. 

Per concludere, abbiamo parlato di un cinema che figura tra gli emblemi della sala come esperienza: uno di quei luoghi in cui ci si ritrova, e che piano piano entrano prima nella vita quotidiana e poi nei ricordi. Per lei c’è una sala speciale, a cui si sente più legato?

Sono tanti i cinema dei miei ricordi. Uno che mi viene subito in mente è il cinema Ambasciatori di Napoli, dove ho visto il primo Guerre Stellari e il primo Indiana Jones. Le sale che ti restano nel cuore sono quelle della giovinezza, e la maggior parte adesso ha chiuso. Un altro è il Metropolitan, sempre a Napoli. Era sotto casa mia, e scendendo nelle grotte del mio palazzo arrivavo nei sotterranei del cinema. In questo modo, quando ero giovane, avevo libero accesso e potevo arrivare in sala direttamente, senza pagare il biglietto.

Il Caravaggio si trova a Roma in via Paisiello 24/I

 

Gino Zagari Cinema Il Caravaggio
Gino Zagari, gestore del cinema Il Caravaggio, a Roma.

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