Accattone – il Cristo delle periferie

Acattone di Pier Paolo Pasolini

di Ludovico Cantisani

Accattone, l’opera prima di Pier Paolo Pasolini come regista, presentata alla Mostra del Cinema di Venezia sessant’anni fa, sarà il primo film della rassegna I Cinema: “Sale” della vita, nata da un’idea dell’AGIS con il sostegno della Regione Lazio e la collaborazione di ANEC Lazio. La proiezione è prevista martedì 19 ottobre alle 18 al Nuovo Cinema Aquila, introdotta dall’attore Massimo Popolizio; nella stessa occasione saranno annunciati i titoli e i protagonisti delle successive sei serate.

“Solo un ateo può essere un buon cristiano, solo un cristiano può essere un buon ateo”. Con queste e poche altre preziose parole si apriva Ateismo nel cristianesimo del pensatore tedesco Ernst Bloch. Uscito in pieno Sessantotto, il saggio rappresentava un invito da parte dell’autore del Principio-speranza a ripensare criticamente ma positivamente la religione giudaico-cristiana e la sua interpretazione marxiana – per scoprire, al di là delle opposizioni, lucide congiunture capaci da sole di conflagrare certi dualismi consolidati. Trovare Mosè in Marx, e trovare la Rivoluzione nella Bibbia – la prospettiva di Bloch è provocante, ma fondata; e il suo gradevolissimo quanto implacabile filologismo lo porta non solo a rileggere e a decostruire testi biblici come l’Esodo o i Vangeli, ma anche il notorio passaggio di Marx sulla religione come “oppio dei popoli”, rivelandolo banalizzato.

A rispondere in Italia alla provocazione di Bloch, in maniera indipendente ma straordinariamente convergente, fu Pier Paolo Pasolini – sicuramente l’intellettuale e l’artista nostrano che, in quel decennio raro che furono gli anni sessanta al di là del loro mito, seppe proporre nel modo più limpido possibile un modello di sacro che andasse al di là dell’elemento organizzato e clericale. Anche Pasolini cercò di tracciare il crinale che unisce e separa cristianesimo e rivoluzione, scegliendo non a caso un rivoluzionario antifranchista per il ruolo di Gesù nel suo Vangelo del ‘64. Eppure, confrontando fra loro i film di Pasolini, i suoi testi poetici, il suo definirsi “l’usignolo della Chiesa Cattolica”, la dedica alla “cara memoria” di Giovanni XXIII che chiude il Vangelo secondo Matteo, e diversi altri elementi – non tardiamo ad accorgerci che ciò che P.P.P. mira a scardinare, nella Bibbia e dalla Bibbia, è innanzitutto una nozione di creaturalità e di ultimità, che, partendo dal Vangelo, porta a una rivendicazione laica del sacro.

Riconoscere il bisogno del sacro nell’uomo, o fare un passo avanti e riconoscere la sacralità dell’umano – queste considerazioni appartengono a Pasolini, ma lui sa anche andare oltre. Il compianto sulla “fine del rito” può accomunare pensatori divisi da decenni e da interi continenti come Ernesto de Martino e Byung-Chul Han, senza che questo si trasformi in un discorso filmico o poetico – ma se il lamento di P.P.P. per la “scomparsa delle lucciole” risuona tuttora, non è solo per l’innegabile lirismo dell’espressione. Ciò che alcuni pensatori seppero concettualizzare, ma che Pasolini, al tempo stesso artista e pensatore, saggista e poeta, non poté che teorizzare, vivere e mettere in scena in un costante interscambio tra i piani, è qualcosa di più profondo ed entro una certa misura indefinibile. A tratti si riconoscono nell’opera pasoliniana germi di una “religione senza fede”. E non si può negare, visto che è ripetutamente dichiarata dal regista, la presenza in lui di un’innegabile nostalgia per tutto ciò che in termini di cultura popolare l’Italia ha perso al ridosso del boom economico – senso del sacro in primis.

È anche una questione di ricordi, di biografia, di attimi di vita vissuta che P.P.P. ha saputo tramandare innanzitutto in forma di poesia. Le processioni, l’incenso, le pie donne, le prefiche, le iconografie tanto di Giotto quanto del Mantegna – tutto questo faceva parte dell’immaginario visivo e culturale di Pasolini, cresciuto in una costante alternanza tra impianto cittadino e mondo rurale. Dire che questa nostalgia per il sacro e per il sacro anche religioso renda oltremodo problematica l’adesione di Pier Paolo Pasolini al marxismo è un dato di fatto. Dire che questa nostalgia pasoliniana renda infondate e sterili le sue polemiche e le sue riflessioni sullo “sviluppo senza progresso”, come lo accusava Calvino, rischia di essere arbitrario, o, quantomeno, a sua volta limitante.

Paradossalmente, il film che più di tutti mostra le intermittenze e le fertili ambiguità di Pasolini davanti al Sacro non è il Vangelo secondo Matteo, e neanche La ricotta, e neanche quell’apocalisse paganizzata che è Teorema. In maniera meno esplicita, in maniera metaforica e quindi poetica poiché sfumata, il sacro e il suo funerale vengono cantati già in Accattone, il primo, dirompente film da regista di Pasolini.

Sospeso tra epos e tragos, tra racconto lineare e sguardo d’insieme, Accattone è la storia squallida ed eroica di uno degli infiniti volti del sottoproletariato romano, Vittorio Cataldi detto Accattone, interpretato dall’iconico Franco Citti. Costretto a vivacchiare e mai invogliato a vivere, nel corso del film Accattone compie una sua squallida odissea urbana che – più che a lui, a noi spettatori – permette di esplorare le differenti realtà umane che compongono l’universo sottoproletario romano. Ovunque cinismo, disperazione, cialtroneria, truff’e imbrogli – e rari germi di purezza. Alla fine, Accattone in fuga dalla polizia fa un incidente e muore. Non importa tanto il perché: né colpevole né innocente, Accattone muore, e da martire sociale quale è chiude gli occhi mormorando “finalmente mi sento bene”.

Il discorso cristologico di Accattone è un discorso smaccatamente iconografico. Diversamente che nel “diversamente laico” Rossellini, o nello strepitoso sottotesto del finale de La Dolce Vita di Fellini, in Accattone ogni eventuale Grazia non ha valore salvifico – né la si ritrova in quell’erotismo brulicante dei corpi che nella filmografia pasoliniana caratterizzerà, nei primi anni settanta, la cosiddetta “Trilogia della Vita”. La Grazia pare incarnarsi prima nella figura di Maddalena, nomen-omen, la prostituta che all’inizio del film mantiene Accattone, poi ancor di più in Stella, la ragazza innocente che lui prima vuole prostituire e poi cercherà di riscattare – ma in entrambi i casi la Grazia viene fagocitata, lasciata in un angolo della città senza segni di riscatto o redenzione.

Arriviamo però al finale di Accattone – è qui che il discorso cambia. Nell’indolenza delle chiacchiere fra amici che precede la tragedia già s’adombra un che di serafico, che fa emergere di più quell’angelico-straniante che l’iconografia adolescenziale del personaggio di Citti presupponeva già dall’inizio del film. Mentre la musica classica assolve una funzione sacralizzante, si crea l’occasione per un piccolo furto: “chi c’ha fede nella provvidenza non morirà di fame”, commenta il nostro, “c’ha ragione Stella, povera Stella mia”. Arriva però subito la polizia, che arresta i due amici del protagonista mentre Accattone fugge in moto: ma subito ha un incidente mortale, fuori-schermo. Il corpo di Accattone riverso al suolo è illuminato da una luce significante – e mentre mormora “io sto bene”, l’ultima inquadratura del film si sposta su uno dei suoi compagni che, le manette ai polsi, si fa un segno della croce.

La passione personale del protagonista, al termine di Accattone, assume un valore salvifico, quasi redentivo. La morte, innanzitutto, libera Accattone dalla miseria – e con grande spirito d’osservazione il compianto padre Fantuzzi de La Civiltà Cattolica in un articolo del 2009 faceva notare che per tutto il film spesso il protagonista aveva lanciato reiterati e significativi sguardi verso il cielo. L’insistente cristologismo di questo finale sarà reso esplicito da Claudio Caligari nel suo Amore tossico, due decenni dopo – ma a tradire la chiusa salvifica della vicenda erano già i versi del Purgatorio di Dante con cui si apriva il film. “…l’angel di Dio mi prese e quel d’inferno/gridava: ‘O tu del Ciel, perché mi privi?/Tu te ne porti di costui l’eterno/per una lacrimetta che ’l mi toglie…”. Questo riferimento contesa tra un angelo e un diavolo per l’anima del ghibellino Bonconte da Montefeltro, evocata nel canto quinto della seconda cantica dantesca, trasporta tutta la vicenda in un ulteriore orizzonte escatologico. Ma a differenza di Bonconte, Accattone non si pente all’ultimo minuto con una “lacrimetta”. A differenza di Bonconte, Accattone non ha nulla di cui pentirsi – perché non ha mai avuto la coscienza di una scelta — e, forse, neanche la possibilità.

È così che Pasolini, nell’indicare in Accattone un Cristo nascosto, mostra di aver imparato a fondo e di saper re-applicare fin oltre il paradosso il concetto di ultimità evangelica. Non saranno beati solo i poveri, solo gli ultimi, l’elogio del pauperismo è la cosa più lontana che si possa pensare dall’immaginario pasoliniano: beati saranno anche e innanzitutto i poveri sporchi, i poveri che vivono alla giornata, i poveri “peccatori” che si prostituiscono o fanno prostituire; o perlomeno, anche per loro è aperta una via non secondaria di salvezza. “La mia visione del mondo è sempre nel suo fondo di tipo epico-religioso”, riconosceva placidamente Pasolini nel ’64, in un incontro con gli studenti del Centro Sperimentale. “La miseria è sempre, per sua intima caratteristica, epica, e gli elementi che giocano nella psicologia di un sottoproletario, sono sempre in un certo qual modo puri perché privi di coscienza e quindi essenziali”. Questa è una delle affermazioni più lucide di Pasolini, che spiega anche il suo modo di girare, tecnicamente grezzo ma figurativamente essenziale, con una frontalità di campo che palesemente ricorda certa arte sacra bizantina.

Senza curare troppo la forma registica e anzi affettando ed esasperando ogni errore di sintassi – Pasolini crea uno stile mimetico al tipo di realtà che inquadra, al suo parlare gergale e sincopato, alle imprevedibili crepe che spezzano le vite dei suoi protagonisti. Senza fare un’operazione cieca e pre-foucaultiana – Pasolini non incolpa la società. In fondo, Accattone mette in scena il destino quando il destino già non esiste più. Conduce una riflessione sulle sottostrutture recependo criticamente il linguaggio artistico e comunicativo delle sovrastrutture. Imprigiona e riplasma quello strumento di comunicazione di massa che è il cinema, ma non per trasmettere un messaggio – è per dipingere un suo Golgota sottoproletario, se non un Giudizio universale tout court. Pasolini è pur sempre stato allievo diretto di Roberto Longhi, uno dei più importanti storici dell’arte italiani – e interpreterà un anonimo allievo di Giotto nel Decameron. Ecco allora la religione senza fede di P.P.P., religione che è anche e soprattutto cinema quando il cinema sa farsi Sacra Rappresentazione – ma tutta la sua filmografia è un segreto Poli(t)tico.

“Pensare è varcare le frontiere”, era l’exergo del saggio di Ernst Bloch. Pasolini, Bloch, ma anche Ernesto de Martino, ma anche Carmelo Bene, ma anche un altro antropologo “impuro” come René Girard, che a differenza di questi altri era cristiano praticante – fra gli anni cinquanta e gli anni settanta, parallelamente al Concilio Vaticano II, si addensarono nell’alta cultura europea numerosi artisti e intellettuali capaci di ripensare attivamente il rapporto tra ateismo e cristianesimo, tra anticlericalismo e sacralità. “Il meglio della religione è che essa suscita eretici”, sentenziava Ateismo nel cristianesimo di Bloch. Empiristi eretici, nel caso di P.P.P.

In apertura, Franco Citti è l’Accattone in uno screenshot dell’omonimo film di Pier Paolo Pasolini, tratto dal trailer della versione restaurata dalla Cineteca di Bologna

 

https://youtu.be/rR9bB9MdpXI

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