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Gruppo di famiglia in un interno, la tragedia umana vista da Luchino Visconti

luchino visconti

Pubblicato il 27 Novembre 2020.

di Mario Soldaini

Luchino Visconti: Quando un uomo solitario finisce per circondarsi di tante persone, quando la vecchia concezione di amore ingloba la più recente moda erotica, quando le comunicazioni velate cominciano a vivere di fatti incomunicabili e solo in quanto tali accaduti, inizia allora quella tragedia umana destinata ad avere un epilogo mitico, una tragedia che nel film Gruppo di famiglia in un interno di Luchino Visconti vede la sua miglior riuscita.

Le parole come suoni potentissimi mettono in risalto la metamorfosi della società borghese che contrapposta ad una decaduta nobiltà pone come gesti rivoluzionari la volgarità dei propri jeans. Una critica che Luchino Visconti ha sempre avuto la forza di giustificare, rivolta al lavoro, a quel pasoliniano sviluppo senza progresso che sottilmente riprende il filo del contributo viscontiano in Boccaccio ’70, dove una bellissima Romy Schneider si contrappone ad un conte – Thomas Milian! – sottaniere.

I dialoghi sono allora quasi interamente rivolti a classi spettatrici di un tempo futuro, incapaci di accogliere presso di sé idee moderne. Sono classi ancora costrette al giogo del fascismo, ad un clericalismo largamente diffuso che non può accettare, neppure lontanamente, l’idea di una rivoluzione culturale.

Solo gli occhi e le parole di un uomo capace di guardare tutto, senza mai smettere di imparare, restituiscono una sintesi elegante e suggestiva caratteristica della vita umana. Visconti, al suo penultimo lavoro, non lascia spazio alle parole ma mette in scena l’equilibrio su cui si reggono i pochi versi di una poesia, raccontando, tra le rughe di un vecchio professore, i silenzi di un grande poeta. Con quanta tenerezza porta allora la poesia al suo punto più alto, quando le parole, ormai già scontratesi le une con le altre, si annullano in favore delle lunghe pause di significato. Ci perdiamo allora in quelle discussioni straordinarie, tra rivolte sociali e fughe borghesi, dove nulla riesce a mantenersi e tutto segue l’esempio rapido di una nobiltà decaduta.

Sfruttando la figura dell’intellettuale Mario Praz, da cui nel corso del film si attingono vicende personali, il regista supera ogni banalità del tempo, cominciando a sfogliare, come in un libro, la storia dei rapporti sociali, a ripercorrere iconiche vicende di uomini e donne. Ecco l’uomo divenire oggetto di produzione, meglio, di una produzione di oggetti che diviene più importante delle stesse emozioni. Gli uomini sono allora collezionisti di edifici, proprietari di vecchie torri d’avorio entro cui si rifugiano dalle atrocità che il mondo sembra compiere. Le peggiori grettezze, insegna Visconti, si consumano nei salotti di casa, dove allegoricamente si contrastano e lottano le classi subalterne, dove la nobiltà, incapace di vedere qualcosa di diverso negli altri, di comprendere forse l’unico reale, si lega alla settecentesca finzione di una conversation pieces.

Le ferite della gioventù, della goliardia, ma persino la presa di coscienza di Helmut Berger, sono solamente alleviate a posteriori dal Professore, il quale, come semplice coprotagonista, nasconde la fobia tipica di chi teme la morte nelle parole ma in queste cerca rifugio.

Si scatena allora una guerra emotiva che raggiunge il suo culmine nel momento in cui, seduti intorno ad un tavolo, le vecchie tradizioni si mostrano nel loro fallimento. Ecco che i desideri dei giovani, come latrati assurdi, si sommano gli uni agli altri per annullarsi a vicenda. Ecco recriminare televisivamente qualcosa, ecco inveire sull’esperienza dei vecchi finalmente messa a tacere, ecco, infine, riassumere quella lotta moderna che ha la sua forza nell’incomprensione. Si esalta allora per contrasto la lingua, passaggio di ogni conflitto politico e sociale, fondamento etico destinato, perché no, proprio all’arte. Le due generazioni parlano ormai lingue diverse, vivono emozioni diverse; ognuno convinto di abitare il proprio migliore tra i mondi possibili.

Così quella gioventù a tratti indifferente decostruisce il proprio linguaggio, facendo ricorso a nuovi strumenti di comunicazione, rincorrendo mete sciistiche ed effimere nottate; e proprio attraverso questa affrettata costruzione del futuro, si allontanano dai vecchi non più capaci di comprenderli. Si intuisce come la diversità di linguaggi abbia introdotto una lontananza di pensieri, e si conclude che proprio la diversità, espressa attraverso l’uso di una comunicazione diversa, – utilizzano infatti il vecchio telefono fisso come un moderno telefonino, – derivi da un diverso modo di ragionare, originato a sua volta da una mancanza di precetti, dove ognuno è libero di essere giudice, dove lo Stato è subordinato alla società e questa, immediatamente, al singolo. Visconti è un visionario che contrappone tre generazioni attraverso l’utilizzo di una lingua grezza, non raffinata e a volte terribilmente volgare, che sostituisce termini a passati silenzi, che si impone violenta nel suono, pur rimanendo sempre debole nel concetto.

Da una parte una società che si nasconde dietro la cornetta di un telefono, dall’altra una classe che si chiude in sé stessa, che non prova neppure vagamente a mediare un futuro comune. È forse proprio da questa liberalizzazione che nascono i problemi della società contemporanea, una società che non ha memoria e per questo risulta essere tanto pericolosa. Ci viene infatti detto che il prezzo del progresso è la distruzione, quella distruzione che non raccoglie dati sul presente e si allontana da ognuno. Una leggerezza nei confronti del progresso che i giovani si concedono perché i padri, incapaci di coglierne le problematiche, si sono limitati ad affermarne generalmente le difficoltà, confondendo la traduzione con la previsione.

In questo quadro dove la bellezza nasce dai ricordi, – a me basta il ricordo del mare per occupare la mia fantasia, – ci si allontana dai giudizi estetici perché non si ha la memoria per rappresentarli. La musica e la pittura finiscono per mostrarci due mondi diversi. Mozart, la Zanicchi e la Caselli, le citate conversation pieces a cui si oppone l’espressionismo astratto di Mark Rothko strutturano il film su tutte le possibili differenze di linguaggio. I giovani provano a conoscere i loro passati da cui sono estromessi, si sorprendono di vedere intorno a loro fatti che sono abituati a vedere lontani. Ma chi è causa di questa incomprensione? Chi ha fatto in modo che quelle due generazioni, potenzialmente simili, fossero impossibilitate a comprendersi, pure sfiorandosi continuamente? Ecco la critica al consumo, al capitale, alle regole di un gioco senza regole che Visconti muove.

La sorpresa per un certo vinile che si percepisce nel volto di Konrad è subito costretta all’impotenza di acquisto, perché il mercato ha infatti contribuito, – o ne è stato causa? –  alla costruzione di quel muro generazionale che tutti i personaggi devono subire. Il tu (l’Altro) che canta la Zanicchi, è rabbia e solitudine, eppure la vera solitudine è quella percepita nel silenzio che ritorna dopo il rumore, presente in quei momenti in cui il Professore vive nel proprio abbandono, là dove forse attende e desidera il ritorno della confusione, delle persone, di quel ritmo di cui non può più fare a meno, tanto che la sua noia, – ancora Moravia! – lo porta a scegliere di condividere i suoi spazi con quelli della famiglia che pure l’ha abbandonato.

Il Professore non accusa il ragazzo che per qualche attimo diviene suo figlio, non denuncia quel nuovo modo di amare che non può condividere ma con affetto accarezza. Preferisce invece allontanare tutto, dirsi distante, lontano da qualcosa che probabilmente lo ha attratto per una nausea del tutto comprensibile, per un’indifferenza che comincia a farsi largo. Perché quel modo di vedere il mondo e di amarlo in un nuovo modo è forse l’unico per evadere dalla solitudine, per ritornare dal passato nel presente e nel presente trovare il futuro. La sua vita è abitata di ricordi tristi, del volto sempre lontano e per questo stupendo di Claudia Cardinale. Un volto che passa veloce come un breve sogno, lasciando la forza del proprio segno.

La vita del Professore, ancora parte di un mondo che lottava come faceva l’amore, diviene silenziosa davanti ad una generazione che esibisce la propria rivoluzione sessuale, che accetta lo scandalo, che si compromette giorno dopo giorno nelle droghe tragiche di una schismogenesi che porta inevitabilmente alla propria distruzione.

E quando, sul letto di morte, il Professore rilegge la sua storia, il Caos – origine! – ha già preso il sopravvento e ritorna nella sua forma di silenzio. In quel silenzio i quadri non parlano più, e attraverso un intreccio citazionistico sottile e geniale la bellezza del passato rimane viva nel giallo tenero della prima edizione del Gattopardo, poggiata con cura vicino al letto. Come se in fondo la letteratura e dunque la memoria fossero le uniche possibilità di salvezza.

Diceva[1]Mario Praz: La casa è l’uomo, tel le logis, tel le maitre, ripete Visconti ben sapendo che la casa è un’Italia che intravede la sua fine: dimmi come abiti e ti dirò chi sei.

 

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[1]La filosofia dellarredamento, 1945

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