Il movimento dovrebbe essere minimo, animalesco, e sofisticato. Una conversazione con Sean Connery

Pubblichiamo la prima parte di una serie curata da Mario Sesti e dedicata al grande attore scozzese scomparso il 31 ottobre scorso. Seguiranno nei prossimi giorni la seconda parte della conversazione e un saggio critico.

di Mario Sesti

Intro

“If you want to keep a secret don’ tell the  boss!”: se vuoi conservare un segreto, non dirlo al capo. È una battuta che il personaggio di Sean Connery, un vecchio poliziotto di grande esperienza e stagionatura, dice a Kevin Costner in Gli intoccabili. È la prima cosa che mi è venuta in mente quando lo incontrai ad Edimburgo, per la prima volta, nel 2006. Stesse sibilanti (scozzesi), stesso gusto per il motto popolare. Alla mia comunicazione della retrospettiva che la Festa del Cinema stava allestendo come omaggio, annuiva senza entusiasmo e con un’aria di incombente sarcasmo che circolava tra le basette e le sopracciglia – un tratto fisico decisivo per il linguaggio espressivo del suo stile (come cerco di dimostrare in un saggio su di lui che ho intenzione di proporre on line dopo questa intervista). Il fatto che stavo scrivendo un libro su di lui sembrava interessarlo quanto la pubblicazione dell’ elenco telefonico (come racconta nella conversazione, è sempre rimasto stupito dalla quantità di inesattezze dei libri scritti su di lui). Ricordo che si animò solo quando gli dissi che il premio alla carriera a Roma gli sarebbe stato consegnato al Teatro dell’Opera dopo un concerto di Riccardo Muti. Il concerto, e il maestro Muti, sembravano le uniche cose in grado di incuriosirlo ed entusiasmarlo.

La conversazione che segue è stata concessa qualche mese prima dell’inizio della Festa (anche se poi ce ne sarà una pubblica tenuta nella sala Sinopoli dell’Auditorium). Le ultime parole che mi ha detto, al telefono, prima di partire da Roma, sono state: “Se passa dalle Bahamas, mi raccomando, mi passi a trovare”. Credo di essermi sentito dire: “Certo, se passo, la chiamerò sicuramente”. Ma non c’è stato un momento di questa conversazione in cui Sean Connery, franco, curioso, concreto, semplice e ironico non sia stato Sean Connery. Stesso sguardo tranquillo e incontrovertibile, stessa falcata cauta e sicura: la stessa che gli consentì al cinema di mettere agevolmente i panni di un cacciatore del neolitico o di un pirata, del più famoso agente segreto del mondo come del papà di Indiana Jones. Qualche mese dopo, in realtà, mi ha richiamato, dalle Bahamas, per chiedermi se potevamo fargli avere altre copie del libro in doppia lingua che avevamo curato. Voleva regalarlo ai nipoti per Natale e per l’occasione disse anche che gli era molto piaciuto. Chissà se l’ha mai letto.

«Se non fossi diventato un attore cosa avrei fatto nella vita? Bè, come si sa, la necessità fa virtù: a nove anni lavoravo consegnando latte a domicilio. Ho lasciato la scuola a tredici anni. Quando ne avevo nove – era il 1939, – c’era la guerra e non era facile avere un istruzione. Io non avevo alcun diploma. Alla fine sono diventato un garzone del latte e ho anche fatto lavori faticosi, come l’operaio (mescolavo il cemento). Per un po’ ho fatto il lavoro di lucidare le bare in un negozio di pompe funebri. Poi mi sono arruolato in Marina, nella British Legion, che organizzava corsi per ex soldati disabili. Ho fatto tanti lavori diversi, anche il bagnino. Devo ammettere che non ero molto bravo a lucidare le bare, ma era comunque un modo come un altro per guadagnarmi da vivere. Poi sono partito per Londra dove ho fatto l’esperienza di Mr. Universo. Da lì è cambiato tutto. Diciamo che la mia vita è stato il tipico caso in cui l’unica possibilità era applicare il motto: ‘Fai ciò che puoi con quel che hai a disposizione».

Vista la sua esperienza, che cosa ha consigliato a suo figlio Jason quando le ha comunicato che voleva fare il suo stesso mestiere?

Sua madre è un’attrice e io sono un attore, lui è sempre stato partecipe del nostro lavoro e ha incontrato tanti altri attori e registi. Era molto introdotto nell’ambiente del cinema e del teatro. Ovviamente l’ho un po’ guidato e lui è diventato ciò che io considero un ottimo attore di teatro. L’ho visto più volte al lavoro sul palco. Ha fatto anche una serie televisiva di grande successo, “Robin Hood”.

Il tutto sembrerebbe, inevitabilmente, un terreno di confronto un po’ edipico..

Sì, ma penso che avrebbe dovuto restare in Gran Bretagna, e fare teatro, si era costruito una buona rete di comunicazioni, di rapporti di lavoro. Ma lui ha scelto di andare a Hollywood e ora si occupa di regia e di produzione, un lavoro che trova più stimolante. Gli auguro una gran fortuna.

Da quel che capisco, non ha gran bisogno di consigli.

Infatti. Anche se in un certo senso sa accettare una guida. Ma, come si suol dire, ‘dopo i ventuno bisogna arrangiarsi da soli’.

È anche la ragione per la quale la sua vita è stata piuttosto avventurosa. Dopo averla annunciata, ha rinunciato a scrivere la sua autobiografia. Perché?

Avevo accettato di scrivere la mia autobiografia ma poi ho lasciato perdere perché ho scoperto che c’erano già 10 libri in circolazione e non ne avevo letto neanche uno. Ho letto il primo e mi sono reso conto che non c’è modo di fermare qualcuno che vuole scrivere un libro e che io non avevo alcuna voce in capitolo. Un mio collaboratore a un certo punto ha letto tutti e dieci i libri e mi sono reso conto che avrei speso il resto della mia vita a cercare di correggere le inesattezze che vi erano scritte. Non sono certo disposto a pagare un prezzo così alto, perciò ho lasciato stare.

Cosa ha pensato quando ha letto il primo (e l’unico)?

Bè, ci ho perso talmente tanto tempo sopra che il mio avvocato, a Londra, un giorno mi disse ‘Ti rendi conto che stai riscrivendo il libro?’. Perché il libro conteneva notizie che l’autore aveva raccolto dai giornali dando per scontato che, poiché erano scritte, dovevano essere vere. E se cerchi di chiarire gli errori, allora finisci per fare tu tutto il lavoro. Perciò non mi sono mai occupato di tutti quei libri, né li ho mai letti. Non si può fare altro. Non intendo ripetere la prima esperienza.

Ha più volte affermato che le sarebbe piaciuto molto dirigere un film dal Macbeth. Perchè? E ha ancora intenzione di farlo?

Ne ho scritto la sceneggiatura. L’ho portato in scena in Canada e mi ha sempre affascinato. È probabilmente la migliore storia mai portata sullo schermo. Ed è a tutti gli effetti sbagliato quello che Shakespeare scrive del protagonista che dà il titolo al dramma perché in realtà Macbeth era un re meraviglioso, aveva visitato Roma diverse volte e non ha affatto assassinato Duncan. Tutte le storie rispetto alla strega sicuramente sono nate per via di Giacomo I, che era ossessionato dall’andare al trono. Ma Macbeth rimane dentro di me. Sfortunatamente i tempi in cui ho cercato di realizzarlo erano sbagliati: in quel momento c’era il Macbeth di Polanski in produzione e l’altro di Orson Welles era ancora di memoria piuttosto recente. Si tratta di due lavori ricchi e notevoli. Tuttavia quando scopri chi era il vero Macbeth, è difficile accettare il modo in cui viene rappresentato.

Se ho capito bene, facendone un film, lei avrebbe divulgato la verità su Macbeth. Persino contro Shakespeare.

In realtà ho scoperto la verità solo in un secondo tempo e devo dire che per me è sempre stato un po’ un tarlo perché la tragedia shakesperiana è senza dubbio stupenda. Chissà, forse c’è una maledizione in tutto questo!

Lei è diventato famoso per aver interpretato tanti re che sembrerebbero vicini all’idea del re scozzese di cui parlava prima, ovvero del Macbeth così come forse la Storia lo ha conosciuto. Più in generale, perché pensa che pubblico, produttori, registi, pensino che lei sia così a suo agio nei panni di un monarca?

Tutto ciò ha a che fare con il fatto che ho iniziato a recitare questi personaggi a teatro e poi ho vestito i loro panni anche al cinema. E comunque non ho alcun problema a indossare costumi, sia che si tratti di una corona o di qualsiasi altra cosa. Penso che sia più facile per un inglese recitare il ruolo di un re perché gli americani, che sono attori altrettanto bravi, se non più bravi, a volte, hanno un problema con la figura del monarca perché non ce l’hanno mai avuto. Anzi: l’hanno rifiutato. Quindi non riescono a relazionarsi con tale figura, c’è qualcosa che gli manca nell’interpretazione. Spesso, ad esempio, sono eccessivamente rispettosi.

Forse c’è un atteggiamento nostalgico dovuto al fatto di non aver mai avuto un re.

È l’ordine sociale che è diverso, per questo il film tratto dal “Nome della Rosa” non ha avuto successo in America. Tuttora ha un pubblico di nicchia che lo apprezza, ma il film quando è uscito ha incassato nelle prime due settimane in Europa, 6 milioni di dollari mentre in America, per tutto il tempo in cui è stato al cinema, ha fatto solo 2 milioni di dollari. Questo per dare un’idea.

Ho letto da più parti che è uno dei suoi film preferiti.

Oh sì, penso sia un film meraviglioso. Quando ho iniziato a leggere il libro pensai che non ce l’avrei mai fatta a finire quelle 500 pagine, poi, invece, mi ha preso, così come mi ha conquistato il suo autore. Ho avuto il piacere di incontrare Umberto Eco di persona ed è un uomo fantastico, la persona più interessante che abbia mai conosciuto da un punto di vista della conversazione. Abbiamo parlato tantissimo. Presumo che il film gli sia piaciuto, ma non l’ho mai saputo per certo.

È stato un film difficile da girare perché abbiamo iniziato in Germania nel gelido freddo invernale; poi abbiamo sospeso le riprese per cinque settimane, e quindi ci siamo trasferiti a Roma, dove abbiamo costruito un monastero all’esterno di un set a Cinecittà. Nevicava quell’inverno a Roma, e ricordo che alcuni alberi caddero sulle auto parcheggiate. C’era un’atmosfera molto strana. Comunque il film mi è piaciuto molto. Tornando all’interpretazione di personaggi di sovrani, ho l’impressione che alla base di tutto ci sia la convinzione di ciò che stai facendo. Se in qualche modo ti senti fuori posto, o assurdo o estraneo, questi stati d’animo trapelano e non dai il meglio di te.

Ma, se posso parlare anche da parte del pubblico, c’è una dignità particolare nella sua presenza fisica che il pubblico percepisce, qualcosa che passa nello spettatore come una forma del tutto particolare di convinzione.

Beh, in questo senso devo fare i complimenti a un uomo di nome Yat Malmgren, un insegnante con cui ho studiato a Londra; fra gli altri attori che hanno studiato con Yat ci sono Anthony Hopkins e Tony Richardson, il regista. Ha lavorato spesso con il National Theatre ed è diventato un regista affermato in una scuola di recitazione. Era uno svedese esperto di balletto e di coreografia, che aveva anche studiato con un uomo di nome Van Laban, specializzato nelle ricerche sul tempo e il movimento. Il suo studio fu utilizzato anche dagli operai delle fabbriche per evitare incidenti durante il lavoro.

Tutto ciò, più la danza, il trucco fisico e “l’internalizzazione”, la motivazione interna, costituivano il bagaglio di quell’insegnamento. Yat ha messo insieme tutti questi elementi e ha organizzato dei corsi in cui ci stendevamo per terra per apprendere il controllo fisico, il movimento di tutte le parti del corpo, per percepire la completezza in termini di peso, spazio, tempo. Anche mio figlio ha imparato queste cose, perché gli ho passato tutti i miei appunti”

Quindi, qualche consiglio, lo ha accettato.

Sì. Il fattore del peso e l’utilizzo dello spazio e di come esprimi queste cose. È uno studio a sé.

Ci parla di questo film del 1962, The Bowler and the Bunnett, che abbiamo incluso nella retrospettiva a Lei dedicata dalla Festa del Cinema di Roma? È l’unica sua regia. Siamo molto curiosi di vederlo.

Tutto è cominciato molti anni fa, quando ho incontrato un uomo chiamato Cyril Stewart, che era un convinto conservatore e un golfista, membro del comitato del campionato. Siamo diventati ottimi amici. Lui mi parlò di un esperimento governativo che consisteva nel costruire delle navi seguendo un’idea innovativa che prevedeva la partecipazione degli operai e del management alla loro produzione. Mi sembrò un’idea fantastica e quindi andai a vedere come lavoravano. Prima andai un weekend, in inverno, poi decisi che in un mese avrei girato il documentario, l’avrei diretto, mi sarei occupato dei dialoghi e l’avrei anche interpretato, tutto questo per la TV.

Lo abbiamo intitolato The Bowler and the Bunnet, e la cosa più strana è che quando interpretai La tenda rossa di Mikhail Kalatazov, prodotto da Franco Cristaldi, Kalatazov mi chiamò per dirmi che ne avevano una copia a Mosca. Questa è la storia di The Bowler and the Bunnet.

Lei pensa che riusciremo ad averne una copia?

Sì, certo. Io non ne ho neanche una. Pensi quanto sono stupido.

È in bianco e nero…?

Sì, è in bianco e nero. E’ un documentario, si tratta di fotografie, è un documento interessante. L’hanno proiettato solo una volta in Scozia e non è mai arrivato in Inghilterra.

Il che ci porta alla domanda che riguarda il Partito Nazionale Scozzese, al quale lei è molto vicino. È un orientamento che ha respirato sin da piccolo, a casa? E pensa di essere stato danneggiato dall’aver esplicitamente appoggiato quelle idee politiche?

Non è una tradizione di famiglia. Non mi sono mai occupato di politica ma penso che quando si vive all’estero si ha una migliore prospettiva del proprio paese rispetto a chi ci vive. Questo è il motivo per cui penso che uno studente debba girare il mondo. Bisogna studiare la storia, perché purtroppo non sembriamo imparare dai nostri errori.

Se sono stato danneggiato dal mio orientamento politico? È un dato di fatto. Perché in Scozia i media – che non sono controllati dal paese – appartengono a gente che ha altre priorità. Ad esempio, il giornale più diffuso, lo “Scotland Herald”, è di proprietà degli americani, mentre lo “Scotchman” appartiene ai Barkley Brothers, i sindacalisti, che paradossalmente sono interessati solo al Regno Unito. Ho sempre detto, sin dal giorno in cui abbiamo avuto il nostro Parlamento ‘devoluto’ nel 1997, che non ci sarà mai un vero Regno Unito fin quando non saremo tutti uguali. Di questo sono ancora convinto.

Perciò lei si sente isolato dal mondo dei media inglesi.

Se la sua domanda è se ne sono stato danneggiato, la risposta è sì. Perché non vogliono dire le cose come stanno. Il mio rammarico è che questi quattro paesi, che compongono il Regno Unito, non sono eguali mentre dovrebbero esserlo. I media controllano molto nel paese. Io ho sostenuto queste idee in tutti i modi, finanziariamente, spiritualmente, anche con interventi politici.

fine episodio 1 – continua 

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