Una purezza. Intervista a Giuseppe Carrieri

di Ludovico Cantisani

Giuseppe Carrieri (Napoli, 1985) è un regista, documentarista, produttore e docente universitario, fondatore della casa di produzione Natia Docufilm. Esordisce nel 2010 con il cortometraggio La polvere e nel 2011, in occasione dei 150 anni dall’Unità d’Italia, cura la regia, la sceneggiatura e la produzione di Notturno Italiano (14 Storie d’Italia dei 150 anni). Nel 2013 gira ben tre documentari, Tu Sali tra le Stelle, Stelle Contate sulle dita e L’alfabeto del fiume. Nel 2013 il suo In Utero Srebrenica, incentrato sulle donne bosniache ancora alla ricerca delle spoglie dei loro figli a vent’anni dal genocidio, vince numerosi premi e viene candidato al David di Donatello. Nel 2016 produce e dirige, in co-produzione con TV2000, Canzoni d’Amore oltre il Genocidio, sul genocidio in Ruanda, l’anno successivo invece collabora con Rai Cinema per Hanaa, film in equilibrio fra documentario e fiction che racconta la vita di quattro bambine con lo stesso nome in diversi paesi del Terzo Mondo, la Nigeria, il Perù, la Siria e l’India. Nel 2019 viene presentato alla Festa del Cinema di Roma il film sperimentale Le metamorfosi, originalissimo ritratto di Napoli che mescola cinema del reale e animazione fiabesca intermezzato dalla voce di Marco D’Amore che legge passi dall’omonimo libro di Ovidio tradotti in napoletano. Parallelamente al suo percorso da documentarista, insegna regia e documentario alla IULM di Milano e alla sede lombarda del Centro Sperimentale di Cinematografia.

Anche quando ti occupi di documentario nel senso classico del termine, non sembri interessato a un’”analisi sociale” tradizionale, da reportage, analitica e rigorosa, ma cerchi un’emozione dietro i fatti ripresi o rinarrati dai loro protagonisti. Da cosa pensi che nasca, ab origine, il tuo cinema?

Una certa idea di origine io la identificherei con l’uomo. La grande sorgente di ispirazione che mi muove, mi appassiona, mi disturba e mi stupisce appartiene a un’idea antropocentrica. Più che a dedicarmi al decor, al linguaggio, alla forma più tecnica del cinema io mi appello a un’esigenza puramente culturale di conoscere e coltivare l’umanità. Per me il cinema si basa e si orienta attraverso i suoi generi e le sue manifestazioni in un’unica modalità: guardare sempre negli occhi le persone a cui ci si appassiona. Le mie “scintille” sono le storie delle persone, ancor prima che le immagini.

Il tuo percorso sembra partire da documentari “puri” per approdare, nell’ambito di una ricerca ancora ben lontana dall’essere conclusa, a una mescolanza unica e irrisolvibile di generi e di linguaggi quale era Le metamorfosi, attualmente il tuo ultimo lavoro. Da spettatore, quanto hai frequentato e frequenti la fiction e quanto hai frequentato e frequenti il documentario? Qual è, per te, se c’è, la differenza di sguardo fra questi due linguaggi?

Naturalmente da spettatore, da persona affascinata dalle storie, coltivo indifferentemente fiction e documentario e non trovo che ci sia una separazione fra i miei gusti, anche perché le cose tendono sempre di più ad imprimersi l’una nell’altra. Quello che posso dire è che, dal mio punto di vista, sicuramente nella fiction tout court mi interessa la capacità di creare molto: quello che per me è appassionante nel guardare opere di fiction conclamata è l’idea di prefigurare cose che devono ancora esistere. Al contrario nel documentario e nel cosiddetto “cinema del reale” mi intriga osservare come l’autore si invischia nella storia del personaggio, facendolo con etica, con poesia, con mistero. Avendo girato diversi film di cinema del reale sono sempre interessato alle diverse strategie e modalità del racconto documentaristico. La metterei così, circa la “distinzione” tra fiction e documentario: da una parte la visionarietà e la prefigurazione dell’esistente, dall’altro la poesia di quello che è più vicino a noi e più prossimo.

In Utero Srebrenica, uno dei tuoi primissimi lavori, è un documentario dirompente, tragico, intimo. Come è nato in te il desiderio di esplorare questo tema? Quali sono state le tappe della sua realizzazione e come si è svolto l’avvicinamento alle madri di Srebrenica per le interviste?

In Utero Srebrenica è nato attraverso la lettura di articolo su un giornale straniero che raccontava la storia di una donna che aveva rivendicato in un laboratorio alcune ossa che lei riteneva appartenessero suo figlio, scomparso a Srebrenica 17, 18 anni prima, contro ogni evidenza fornita dall’analisi del DNA. Quando incontri una storia del genere ti rendi subito conto che c’è qualcosa che muove le persone che va oltre la razionalità e il senso pratico. Quella donna è apparsa sin da subito ai miei occhi come un personaggio estremamente forte, estremamente contemporaneo, in grado di scardinare le certezze scientifiche, e di fungere per me come una grande “catapulta emotiva” che mi ha motivato ad affrontare quella storia e la realizzazione di In Utero Srebrenica.

Come hai avvicinato le madri di Srebrenica? Da quali elementi era composta la tua troupe?

Per poter avvicinare le donne protagoniste del documentario è stato molto importante il coinvolgimento della famiglia di una mia amica nata a Srebrenik, non lontano da Srebrenica. Capisci bene che dietro un racconto di questo tipo c’è una forte voglia di mimetizzarsi, di contaminarsi, di guardarsi da un altro punto di vista, da un altro lato del mare. Noi in Italia stavamo tranquilli con le nostre infanzie più o meno serene – io nel ‘95 avevo 10 anni – mentre dall’altro lato dell’Adriatico c’era la guerra, la devastazione, l’odio, i proiettili che ancora adesso sono conficcati nel muro. Parliamo di qualcosa che dal mio punto di vista è disturbante, e per me l’elemento disturbante deve essere centrale nell’ispirazione che muove un film o un documentario. Per quanto riguarda la troupe, In Utero Srebrenica è stato organizzato con una produzione rigorosamente e orgogliosamente no budget, una squadra di amici, composta da me, da Giancarlo Migliore che faceva da direttore della fotografia, da Carlotta Marrucci al montaggio e da Nicola Baraglia, anche lui filmmaker nella produzione, un altro dei miei più cari colleghi. La produzione è stata miracolosa ma il vero prodigio è stato quello di arrivare così lontano in termini di festival e di diffusione: ma le storie evidentemente fanno il tragitto che meritano.

Che macchina da presa avete utilizzato per girare In Utero Srebrenica?

Era una Canon 550, una camera assolutamente da “entry level”, ma io avevo 27 anni e mi ero laureato da due anni e mezzo, e stavo provando a fare esperienza di cui non aveva calcolato la gittata in termini distributivi: per questo motivo abbiamo girato con una macchina da presa molto semplice e tenuta sempre a mano e anche per il montaggio abbiamo usato un computer molto semplice. Tutta la produzione di In Utero Srebrenica è stata molto semplice, per fortuna. Quello che ci interessava era andare lì, scoprire, conoscere, impattare noi stessi sull’argomento, e portare l’alternativa radicale di un altro punto di vista. Noi eravamo a favore della follia delle madri, perché le madri sono il punto di svolta nella follia guerra, sono loro le ultime sopravvissute di ogni conflitto: girare In Utero Srebrenica voleva dire interrogarsi su cosa resta di chi resta.

La scelta del bianco e nero conferisce a In Utero Srebrenica una particolare valenza tragica, che sembra trascendere il documentario. Come è nata questa scelta? Avevi in mente qualche precedente documentario girato in bianco e nero?

La scelta cromatica o meglio non-cromatica anche se il bianco e nero è un colore profondissimo e una tinta incredibile, a dire la verità non aveva un’ascendenza cinematografica o documentaristica, rappresentava più che altro la mia esigenza di far risaltare, dentro la sfera umorale, sentimentale, emozionale generata da un racconto tanto tragico e doloroso, la forza dei volti delle donne di Srebrenica, di queste madri, donne, nonne, genitrici, insomma persone. Il bianco e nero serviva, dal mio punto di vista, a cadenzare meglio, come una luce supplementare, la superficie di questi volti. Erano i volti la vera trama di questo documentario o docu-reportage a dir si voglia: In Utero Srebrenica si basava sull’attrazione magnetica che provavo verso queste donne che stavano lì, ancora a pregare, a cercare, a capire. Dietro quella certezza c’era un’anima e per me quell’anima era in bianco e nero, non per fascinazione cinematografica ma per fascinazione spirituale.

Andando in avanti lungo la tua filmografia, troviamo Hanaa. Il film trae sicuramente spunto da situazioni tragiche e reali che affrontano le giovani donne in diverse parti del mondo, ma sembra essere, almeno in parte, frutto di una ricostruzione scenica. Qual è il margine di simulazione oltre il quale, per te, un documentario cessa di essere tale e diventa un’altra cosa? E come definiresti quest’altra cosa?

Io amo molto la parola reenactment, non perché sia un anglofilo ma perché credo che sia una formula molto vicina al mio intento. “Simulazione” è una parola giusta ma mi riporta con la mente al calcio, all’immagine di calciatore che finge di aver subito un fallo! La vita non si simula, la storia, la situazione, l’ambiente, l’atmosfera, sono elementi che o si colgono in tempo reale o, se appartengono a sfere temporali a noi aliene perché il regista è sempre soggetto nel tempo e vittima del tempo, puoi appoggiarti a delle pratiche di reenactment. Ovviamente però credo che come in tutte le operazioni linguistiche, come nella poesia la scelta della rima o come nella prosa la scelta della sintassi, anche il cinema stesso rappresenta più che altro la modalità di formulazione di un racconto. Noi abbiamo sempre bisogno di organizzare i nostri contenuti, non esiste la messa in scena naïve nuda e cruda, e se esiste a un livello basico essa è comunque frutto di una selezione, e dove c’è selezione c’è controllo: non puoi riprendere tutto e non puoi riprendere tutti. Sicuramente rispetto a In Utero Srebrenica Hanaa lavora con una diversa impostazione se vogliamo anche più ambigua, un certo documentarismo e una certa finzione filmica che porta lo spettatore a interrogarsi sulla veridicità delle immagini. Se allo spettatore viene il dubbio significa che il mio lavoro l’ho fatto bene.

Come si sono svolte le riprese di Hanaa e come hai trovato le interpreti principali? Cosa implica, sia da un punto di vista umano che da un punto di vista tecnico-pratico, girare nelle periferie del mondo?

Per trovare le quattro protagoniste mi sono affidato tantissimo alla mia rete di associazioni che mi hanno “assistito”: da filmmaker, fra il 2013 e il 2015, avevo sempre più approfondito la mia conoscenza delle ONG e del mondo diritti umani. Il termine “periferie” di per sé è corretto: per mia curiosità io scelgo di abitare zone che non mi appartengono. Io sono nato a Napoli, figlio di un quartiere residenziale, e vivo a Milano, sono italiano, risiedo nel cuore dell’Occidente e del Mediterraneo: è naturale che la mia tentazione principale sia quella di andare “oltre il bordo”. Il mio compasso però è molto impreciso: non riesco più a pensare in termini di centro e di periferie, per me esistono solamente le tentazioni, le distanze da colmare, le lontananze da completare. Della settima arte mi affascina soprattutto la possibilità di puntare il cannone creativo della meraviglia in zone aliene al mio mondo. Io non ragiono in un’ottica periferia-centro, ma in funzione di gap da riempire.

Andando ad indagare un aspetto più produttivo-finanziario, quanto ti ha agevolato, nel tuo percorso, l’apertura di una società di produzione?

La Natia Docufilm nasce come una compagnia di amici, colleghi, persone che ho incontrato nel corso degli anni e che pur senza avere una filiazione dichiarata e netta – non esiste una squadra “conclusa”, e sono io l’unico socio titolare – è una grande selezione di antenne, che fanno parte di tutto quello che è il mio mondo, dei contatti nati attraverso l’università e delle mie amicizie personali. Come casa di produzione ci occupiamo prevalentemente di narrazione audiovisiva, di storie legate al documentario e che portano un po’ “fuori dai mondi” ma, nella discontinuità inevitabile delle collaborazioni, la Natia Docufilm racchiude un’idea originaria di una squadra di persone che si conoscono, si stimano, hanno voglia di mettersi in gioco perché nel 2010 come oggi sono ancora mossi dalla stessa curiosità.

Le metamorfosi è attualmente il tuo ultimo film. Qual è stata l’ispirazione iniziale, la prima immagine, la sensazione originaria?

Le metamorfosi ha avuto una genesi particolarmente febbrile, febbricitante direi. Nasce come un adattamento del mondo di Ovidio, un mondo legato al tema del fantasioso ma anche del disturbo e del disturbante, dei barbari: Le metamorfosi originarie sono la narrazione di un momento di declino, perché dietro la trasfigurazione di Ovidio c’era una certa idea di Impero che stava finendo. L’immagine di un Impero colto nel momento della sua caduta si associava a una certa concezione di rovina, bellissima: io credo che le rovine hanno grande modo di attrarmi perché raccontano del passato e sono ancora lì nel presente a ricordare quanto il tempo logori e quanto sia importante resistere.

A partire da questo concept di base quale iter produttivo ha avuto Le metamorfosi?

La fase di finanziamento e ricerca fondi è stata complicata, poi la SIAE con il bando Sillumina ha dato un contributo importante al film, la IULM che è l’università in cui insegno ha a sua volta contribuito nel finanziarlo, infine si è aggiunta RAI Cinema che con mio grande piacere ha valutato Le metamorfosi come un progetto significativo e ha dato ulteriore sostegno produttivo all’operazione. C’è stata una lunga fase primaverile-estiva di preproduzione, che ha portato all’emergenze di personaggi identificati che però col tempo abbiamo capito di non poter filmare e di non poter includere nel film: come sai un docufilm è sempre un work in progress. Avevamo comunque raccolto un certo numero di immagini, e abbiamo fatto una pausa di realizzazione significativa nel corso dell’autunno con numerosi frammenti da mettere apposto; poi siamo tornati a girare in inverno.

Alla fine della fase di riprese e di montaggio cos’è rimasto e cosa si è aggiunto rispetto all’originale ispirazione ovidiana?

Alla fine sono rimasti frammenti soprattutto di Mauro, pescatore del Sarno, un fiume inquietante della Campania. Il tema narrativo principale, che è quello di una bambina Rom che sfugge come Dafne a un ipotetico attentatore, ci permetteva di attraversare tutto il mondo che va da Scampia, periferia dolorosa della mia città in una terra di nessuno che è Cupa Perillo, fino a Castel Volturno, una terra resa molto cinematografica da Garrone e De Angelis. Emerge poi un altro uomo invisibile che come Orfeo cerca la sua Euridice in abissi sconfinati, in una lotta fra ombre dominata dall’impossibilità di fondo del ricongiungimento. Questi sono stati i tasselli finali, preceduti da molti errori, molte incertezze e soprattutto da molti incontri. Le metamorfosi è stato un film modulare con molte incertezze e variazioni, ma sono molto contento del risultato finale, fra la fotografia di nuovo di Giancarlo Migliore, il montaggio di nuovo di Carlotta Marrucci e le animazioni di Camillo Sancisi. Anche se Le metamorfosi è un film con molte incognite al suo interno, penso abbia messo in luce degli aspetti molto personali di me: il tema morte, l’Inquietudine, la fascinazione per rovine che è stato per certi versi l’impulso iniziale che mi ha spinto a fare questa ricerca visiva.

Ne Le metamorfosi Napoli viene analizzata, dissezionata, inquadrata e ripresa da molte angolazioni, mescolando e sovrapponendo diversi linguaggi, diversi formati di ripresa, diversi sguardi sulla città. Punto di partenza è un fatto realmente avvenuto, lo smaltimento clandestino del corpo di una balena spiaggiata negli anni novanta. Quanto può contare il dialetto napoletano, con la sua tendenza alla metafora e al barocchismo, nel plasmare la forma mentis e lo sguardo di un regista?

Il napoletano non è semplicemente un dialetto, è anche un alfabeto visivo. Ti dà la possibilità di coordinarti attraverso vere e proprie espressioni per immagini. Stiamo parlando di una cultura che rende tutto attraverso la potenza dei suoni ma anche delle descrizioni. Siamo dentro un “cosmo”: il napoletano naturalmente va modulato, può essere elemento di disturbo, una lingua ostile, ma al di là di questo ne Le metamorfosi quello che è più importante è far capire che siamo dentro un contesto autentico, una purezza, è cercare di far amalgamare lo spettatore in un contesto che fa testo e trascinarlo in una spirale per me magnifica di inquietudine che una certa periferia napoletana costruisce attraverso le sue ombre e le sue poche luci, ma anche attraverso la sua umanità che era e resta il fulcro di tutta l’operazione.

Quanto è durato il processo di montaggio de Le metamorfosi e chi vi ha collaborato? Cosa è rimasto fuori dal montaggio finale?

Il montaggio lo ha curato nuovamente Carlotta Marucci, con cui avevo già lavorato su In Utero Srebrenica e quasi tutti gli altri miei lavori. Carlotta è una donna ipersensibile e lavorare con lei dal mio punto di vista è naturalmente semplice, perché ha la capacità di sincronizzarsi col mio pensiero e di saper cogliere molto bene i nessi, i collegamenti. Mi verrebbe da dire che ha una sensibilità unica anche nella capacità di sentire bene i tempi, le lunghezze, le debolezze, ho collaborato spesso con lei avendo sempre un confronto attivo, conflittuale in alcuni frangenti ma come sempre accade nelle cose migliori. Tutto nasce da una mia idea ma si deve arricchire nel confronto con gli altri, fare un film in maniera diversa sarebbe rischioso e egoriferito: nella lavorazione di un’idea ci sono sempre delle dinamiche di scambio, corrispondenze, negoziazioni, tanto più nel montaggio che è la fase più delicata perché gli errori fatti in ripresa pesano, bisogna rimettere a nuovo delle immagini.

Quali sono secondo te i registi che in Italia hanno meglio saputo destreggiarsi sul crinale fra il documentario e la fiction? Cosa pensi che nutra davvero lo sguardo di un regista?

Quello che nutre lo sguardo di un regista è la sorpresa, l’imprevedibile, un regista deve allontanarsi dall’abitudine e dalla comfort zone per mettersi a nudo: non è semplicemente un creativo su committenza, deve mettersi in discussione. Questo processo è estremamente doloroso perché vuol dire non poter mai mentire a sé stessi, il che è un’impresa. Il regista si deve nutrire secondo me della meraviglia, ma se meraviglia è una parola stucchevole direi che deve nutrirsi del mistero, deve concedersi una volta al giorno la possibilità di scoprire qualcosa. Nel nostro paese Gianfranco Rosi e Roberto Minervini hanno dato un lustro e una capacità anche inedita al nostro documentario di farsi territorio di uno sguardo internazionale, così come Agostino Ferrente. Ci sono profili di vario taglio che sono straordinari: se guardi un film di Pietro Marcello nella sua straordinaria poeticità anche lì vedi varie sfumature fra il reportage e la ri-messa in scena, ma anche nei film di Matteo Garrone o in Jonas Carpignano ci sono dei margini di documentarismo. Esiste una certa influenza, verosimilmente un approccio molto realistico che potrebbe sembrare documentaristico e che abita sguardi anche non documentaristici. Parli di crinale, ne facciamo un precipizio: penso che l’importante sia che ogni regista attinga liberamente dalla più grande risorsa che abbiamo, la realtà.

Quali sviluppi futuri vedi per la tua ricerca? Qual è il prossimo passo e come puoi prefigurare un approdo finale?

Un approdo finale non saprei prefigurarlo, “finale” mi fa paura come termine, ma la mia ricerca racchiude uno sviluppo continuo, incessante, inesauribile, a un rinnovo quotidiano della formula linguistica. In questo senso attingo molto dagli studenti della IULM, che mi danno una forbice di nuove possibilità, mi trasmettono nuove idee attraverso la loro più giovane età. Io credo di saper stare al mondo nella misura in cui attingo da questo mondo delle possibilità, delle idee, delle visioni. Per le prossime realizzazioni quel che è poco ma sicuro è che tornerò in strada, lavorare tra parchi, marciapiedi, ombre, in mezzo a persone che non conosco, perché questo è quello che mi appartiene e che spero mi segnerà per tutta la vita.

 

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