Antonioni e Moravia. Lezioni di alterità.

Blow Up

di Ludovico Cantisani

Nato a Ferrara nel 1912 e morto a Roma nel 1915, Michelangelo Antonioni è stato uno dei più grandi maestri del cinema italiano. La sua opera filmica, che si estende dal 1943 al 2004, ha attraversato sei decenni cruciali di storia italiana, registrando i cambiamenti della società ma comunicando parallelamente con una dimensione sovrastorica, scopertamente metafisica. Blow-Up resta tuttora insuperato come saggio filmico di epistemologia, laddove La Notte e Deserto Rosso valgono più di molti saggi come testimonianza dell’Italia del boom economico; e lo stesso Jack Nicholson ha sempre indicato Professione: Reporter come il suo preferito tra tutti i film da lui interpretati.

Pur ricorrendo solo occasionalmente ad adattare a film libri altrui, violandoli e sconcertandoli per ricondurli a una forma filmica, nel percorso artistico di Antonioni è stato fertile il dialogo con la letteratura del suo tempo, in particolare con l’Esistenzialismo franco-italiano esploso negli anni cinquanta. E degli scrittori italiani più o meno coetanei di Antonioni quello a lui tematicamente più vicino fu senza dubbio Alberto Moravia, classe 1907, che aveva esordito già nel 1929 con il romanzo Gli indifferenti; tanto più che, alternando a quella di romanziere l’attività di giornalista e reporter di viaggio, Moravia ebbe modo di intervistare Antonioni in almeno due occasioni concomitanti tra il 1967 e il 1968, qualche tempo dopo l’uscita in Italia di Blow-Up e nel periodo dell’inizio delle riprese di Zabriskie Point. Moravia fu il campione dell’esistenzialismo letterario in Italia, così come Antonioni fu colui che, in un linguaggio molto specifico e molto personale, seppe trasporre le tematiche esistenzialiste al cinema: più che ipotizzare una influenza da una delle due parti, ciò che è decisivo è rilevare una convergenza.

La prima voce autorevole che aveva accostato le opere di Michelangelo Antonioni e di Alberto Moravia era stata quella di Pier Paolo Pasolini, che nel 1961, rispondendo alle suggestioni lanciategli da un lettore della sua rubrica su Vie Nuove, si lanciava in un’analisi breve ma folgorante delle analogie di contenuto e delle differenze di stile tra le due opere, che si tramutavano inevitabilmente in differenze di ideologia e di linguaggio. Antonioni, girando La Notte e delineando la storia dei coniugi Pontano, si mantiene inevitabilmente nella “oggettività narrativa” propria del cinema, ma riuscendo a plasmare un’opera “estremamente soggettiva e lirica”: tanto il Giovanni di Mastroianni quanto la Lidia di Jeanne Moreau sono “incaricati a esprimere quel vago, irrazionale e quasi inesprimibile stato di angoscia che è tipico dell’autore”, di Antonioni stesso, nella letteratura pasoliniana. Ne La Noia di Moravia succede il contrario: nonostante la soggettività narrativa, scritta tutta in prima persona, il romanzo è “estremamente oggettivo, cosciente”, freddo, verrebbe da dire: Dino, il personaggio che dice io, “non è che un espediente, usato per esprimere uno stato di angoscia ben chiaro, storicizzato, razionale nell’autore, e ridonato alla sua vaghezza, che è poi concretezza poetica, nel personaggio”.

All’interno di questo chiasmo, imputabile tanto alle diversità di visione tra i due autori quanto alla forma rispettivamente scelta, La Notte e La Noia condividono lo stesso immaginario umano: un senso di conformismo generalizzato, a cui nemmeno i due protagonisti maschili, nonostante la vena artistica, riescono mai a sfuggire; conformismo che si rispecchia nelle feste dell’alta borghesia, in cui sinanche i volti si appiattiscono e si confondono; una crisi dell’arte, o quantomeno del suo significato sociale; e, soprattutto, una coscienza di classe che, tutta proiettata nei suoi riti caduchi, si sta smarrendo come coscienza individuale. Anche rispetto a quest’ultimo punto Pasolini, al termine del suo articolo, sembra prendere le parti de La Noia: l’intellettuale friulano non vuole sminuire il valore quantomeno espressivo del film di Antonioni, ma oppone a La Notte delle implicite “tirate d’orecchio” a livello ideologico, oltre che ad accennare a “certe battute goffe”. Agli occhi di P.P.P. La Notte non vale tanto come un sintomo in sé di un determinato stato di cose tipico dell’alta borghesia milanese dei primi anni sessanta: è la sua ricezione, e il fatto che il pubblico borghese medio “si riconosca più nella Notte che nella Noia”, ansia erotica a parte, proprio in virtù dell’inconsapevolezza che muove i personaggi di Mastroianni e della Moreau.

Le assonanze tra Antonioni e Moravia però non terminarono qui, e anzi in una successiva occasione furono i due diretti interessati a rimarcarle. Fu a proposito dei parallelismi tra Blow-Up e l’immaginario moraviano che si creò un interessante scambio, in un’intervista che Moravia fece ad Antonioni per L’Espresso, a qualche mese dall’uscita del film:

“Antonioni: Per me il delitto aveva la funzione di qualche cosa di forte, di molto forte, che ciononostante sfugge. E per giunta sfugge proprio a qualcuno, come il mio fotografo, che ha fatto dell’attenzione alla realtà un mestiere addirittura.

Moravia: È un po’ il tema del mio ultimo romanzo che si chiama appunto L’attenzione. Anche nel mio romanzo il protagonista è un professionista dell’attenzione cioè un giornalista; e anche a lui sfuggono cose che purtuttavia gli avvengono sotto il naso

Antonioni: Sì, è vero. Il tema del tuo libro rassomiglia a quello del mio film, almeno per quanto riguarda l’attenzione alla realtà. Era un tema che era nell’aria, voglio dire nell’aria intorno a me

L’attenzione, pubblicato nel 1965, ruota tutto intorno a una tentazione incestuosa tra un patrigno e una figliastra, tentazione vissuta soffertamente dall’uomo ma indagata attentamente dallo scrittore – scrittore che, prima ancora di Moravia, è lo stesso protagonista Francesco Merighi, giornalista affermato e aspirante scrittore che scrive il romanzo in prima persona. Pagina dopo pagina, si fa forte in lui il sentimento e la consapevolezza dell’inautenticità della realtà che lo circonda, inautenticità che, proprio com’è il caso del Thomas di Blow-Up, non sembra avere via di fuga: la sua risoluzione però sarà diversa che mettersi a tirare una pallina da tennis invisibile come fa il personaggio di Hemmings. L’attenzione contiene però alcuni passaggi in cui sembra verbalizzarsi tutta la problematica antonioniana dell’azione, del conato e della passività; e tale problematica risaltava in una forma acuita dalla consapevolezza professionale del narratore Francesco, scrittore al pari del suo autore Moravia, tanto quanto Thomas, fotografo, contiene in nuce la figura professionale del suo regista:

Dunque, a quanto sembrava, l’inautentico era nell’azione stessa nel momento in cui si agiva. E dunque, ancora una volta, l’inautentico si rivelava nel cuore medesimo delle cose, nella loro composizione, cioè nella materia stessa di cui era fatta la realtà. E non si poteva agire che in maniera inautentica, come probabilmente non si potevano scrivere che dei romanzi inautentici, dal momento che un romanzo senza azione non era un romanzo. Ma tra l’azione del romanzo e l’azione nella realtà, c’era questa differenza; che nella realtà l’azione, anche se inautentica, ‘funzionava’; mentre invece un romanzo inautentico era un brutto romanzo e non ‘funzionava’

Tanto Antonioni con Blow-Up, quanto Moravia con L’attenzione si trovano a muoversi sull’oscuro crinale che riguarda i limiti stessi della forma artistica da loro scelta come forma privilegiata di comunicazione, o del suo più diretto antecedente. In entrambi i casi quest’indagine sui limiti assume un tratto di meta-, metavisivo in Antonioni, metaletterario in Moravia, che rende queste opere particolarmente magistrali e particolarmente significative. Saliente è il ruolo che la figura femminile svolge nelle due opere: ancora più sfumata e sfuggente del solito in Antonioni, pur essendo paradossalmente più accessibile nel contatto superficiale che è il sesso; ancora più ossessionante, oscena e in fondo fantasmagorica in Moravia, che qui palesa il tema dell’incesto che già scorreva sottotraccia in molta della sua letteratura. Se bene o male tanto per il protagonista di Blow-up quanto per il giornalista-scrittore protagonista de L’attenzione le donne continuano a rivestire il ruolo tradizionale ma sfilacciato della “musa” – muse postmoderne, muse inquietanti per dirla con De Chirico -, si capisce bene perché attorno a loro si costruisce un discorso tanto criptico, consapevole e negativo sui limiti delle proprie forme artistiche e narrative.

L’ultima convergenza esplicita tra Antonioni e Moravia si ritrova a proposito di Professione: Reporter del primo, e qui l’omaggio è ancora più esplicito: nella casa londinese dove il protagonista David Locke, reporter fintosi morto nel deserto africano per assumere l’identità del suo sosia Robertson, si intravede chiaramente in cima a una pila di libri un volume di Moravia, A quale tribù appartieni? – il reportage di viaggio che Moravia scrisse dopo innumerevoli viaggi in Africa, in compagnia, fra gli altri, anche di Dacia Maraini e dello stesso Pasolini. Ed è rispetto alla rappresentazione dell’Africa, e degli africani, che si trova un ulteriore e lucidissimo punto di contatto tra i due auteurs.

La scena più folgorante di tutto Professione: Reporter, più folgorante anche del suo piano sequenza finale, è un breve frammento del (finto) reportage che il personaggio di Jack Nicholson stava girando sui movimenti di guerriglia in Africa. Nel girato, che la sua “vedova” e il suo produttore televisivo vedono a Londra, Locke tenta senza successo di intervistare un africano, che si era presentato come lo “stregone” del villaggio. Già la prima domanda del protagonista è inavvertitamente offensiva: Locke non nasconde il suo stupore per il fatto che un uomo come quello che ha davanti, che ha studiato per molti anni in Francia, possa credere ancora alla magia. L’altro non esita a replicargli che “signor Locke, potrei darle risposte perfettamente esaurienti a queste domande, ma non credo che lei potrebbe imparare un granché da queste risposte. Le sue domande rivelano molto di più sulla sua persona di quanto le mie risposte su di me”, e – tracciando un’autentica lezione di alterità – di lì a poco l’africano inverte la direzione della macchina da presa, portando al giudizio dell’obiettivo un quantomai spaesato Locke.

Di A quale tribù appartieni? particolarmente vicino allo spirito del film di Antonioni sembra essere il capitolo La cultura che impedisce di capire gli altri, in cui Moravia, raccontando di un gruppo di inglesi che lui aveva osservato nella sala da pranzo di un grande albergo di Mombasa, nell’estate 1963:

“Quei dieci omaccioni in camicie sbracciate e shorts sono, in fondo, i portavoce inconsapevoli di una cultura precisa: quella di specie nazionalista, individualista, borghese e protestante che in Europa mostra il suo volto subito dopo la Riforma. Ed è giusto che sia così. L’europeo è sempre condizionato dalla propria storia; nei suoi rapporti con i popoli di altre civiltà egli si serve sempre, consapevolmente o no, di strumenti culturali assai complessi e delicati, forgiati da secoli”

Quest’atteggiamento critico-osservativo, capace di risalire ai pattern archetipici del pensiero colonizzatore o “post-colonizzatore”, accomuna il reporter in crisi di identità di Jack Nicholson al reporter occasionale che è stato Moravia, e testimonia appieno la lucidità dei due intellettuali nel mettere in discussione, attraverso forme innanzitutto narrative, il pensiero occidentale fin nei suoi fondamenti logici. Da La Notte a Blow-Up a Professione: Reporter, da La Noia a L’Attenzione passando per A quale tribù appartieni?, composto nell’arco di un decennio, è crescente da parte di Antonioni e Moravia la coscienza di una crisi dell’artista, scrittore, pittore, fotografo o documentarista che sia. Al tempo stesso, gli esiti teorici, e quasi saggistici, a cui queste sei opere, anche nel loro chiarificatorio e reciproco dialogo, pervengono – bastano da soli a testimoniare quanto, in questa supposta “crisi delle arti” fin troppo novecentesca, sia emersa una nuova figura di artista, al tempo stesso intellettuale e critico, saggista e narratore. Quell’accezione di post-moderno che, da sola, riscatta questo termine da tutti i suoi abusi.

In apertura, un’immagine di Blow Up. La versione restaurata del film di Michelangelo Antonioni è stata presentata nel 2017, al 70° Festival di Cannes, dalla Cineteca di Bologna, Istituto Luce – Cinecittà e Criterion, in collaborazione con Warner Bros. e Park Circus, per festeggiare i 50 anni del Grand Prix (così si chiamava allora la Palma d’Oro) vinto da Blow-Up al Festival di Cannes nel 1967.
Il restauro è stato realizzato nei laboratori di Criterion a New York e L’Immagine Ritrovata della Cineteca di Bologna, con la supervisione del direttore della fotografia Luca Bigazzi.

 

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