di Stefano Scanu
In Largo Ascianghi c’è una lunga coda di persone che arriva fino alla strada, ogni tanto si sente scampanellare, allora si apre per far passare il tram e poi si serra di nuovo. Sfila sotto il neon brillante del Nuovo Sacher, sotto la scritta rossa e bianca Tre Piani e infine oltre i caratteri littori del Dopolavoro dei Monopoli di Stato e la grande aquila che si gira dall’altra parte per non vedere.
Eshkol Nevo è seduto nell’atrio a firmare le copie del romanzo da cui il film è tratto, Nanni Moretti svetta su tutti, osserva la gente da dietro il tender, guarda l’orologio, fa la spola tra l’ufficio e la biglietteria, tra poco si inaugura.
La sala mormora, i fotografi stanno in piedi sui corridoi ad aspettare che il regista salga sul palco per presentare il film; indossa una polo rossa come le poltrone e le tende, quasi scompare in quella distesa di velluto scarlatto. Poi prende il microfono, ringrazia tutti gli intervenuti, il cast, soprattutto Nevo che ha saputo condensare in un libro e in un palazzetto di tre piani così tante vite e destini.
Infine si scusa, che insomma deve scappare, correre al Mignon a presentare il film, però in fondo è una bella notizia perché il cinema di via Viterbo riapre con uno schermo in più, non sarà tanto ma se si pensa a tutti quelli che invece si sono spenti in questi lunghi mesi di languore cinematografico, allora sembra una cosa enorme. Così augura una buona visione, qualcuno gli passa la giacca e il casco ed esce dal Nuovo Sacher. I fotografi saltano giù dai cavalletti su cui erano appollaiati e lo seguono fino al parcheggio, lo riprendono mentre sale in vespa e scompare nei vicoli di Trastevere.
E per uno scooter che va, una macchina arriva, stavolta sullo schermo: è notte, la Rohrwacher trascina un trolley per strada, con la mano si tiene la pancia mentre un’auto la sfiora a tutta velocità prima di incunearsi letteralmente dentro l’edificio da cui lei è uscita.
Il film comincia così, o almeno quello che sono riuscito a vedere perché poi decido di andare al Mignon, di seguire questa première itinerante, monto anche io sulla vespa che ho comprato anni prima in preda a una emulazione inconsapevole ma quando arrivo a Piazza Fiume è troppo tardi, non si può più entrare; non mi lamento, poco male, vorrà dire che questo evento durerà più di quanto doveva, almeno per me.
Allora il giorno dopo penso a un altro cinema, scelgo il Quattro Fontane, rifaccio la fila, un po’ più dimessa, un po’ meno glamour, e passo le successive due ore a spiare la vita di un condominio che è un microcosmo, una piccola riserva di esistenze che si guardano, si parlano, si contaminano, si sfiorano e a volte si urtano tra loro per non isolarsi, come spinte da una forza invisibile, e penso che tutta questa solitudine assoluta delle persone appartate, o quella delle coppie e delle famiglie che non comunicano, che non si capiscono, che insomma tutto ciò somiglia tanto a quello che abbiamo vissuto noi, chiusi nei nostri palazzi di tre piani e oltre, e ci vuole qualcosa come una macchina che sfreccia e sbreccia il muro della casamatta per liberare tutti.
Nel momento in cui il dentro e il fuori si invertono, accadono cose; fatalmente succede anche nel film, si schiude il portone, girano l’angolo e salgono in macchina. Il mondo esterno è più arieggiato e interessante ma anche più pericoloso, come può esserlo un parco, un tribunale, un ospedale dove si consuma l’ossessione di Lucio/Scamarcio, la dissociazione di Monica/Rohrwacher o la disperata autoaffermazione di Dora/Buy.
Poi però, quando rincasano, portano con sé un po’ di quello che hanno visto e vissuto, e l’abitazione non assomiglia più al rifugio che avevano lasciato ma a qualcosa di inospitale, disturbante, le tre famiglie si disgregano e la crepa che ha aperto l’auto nel prologo, sale metaforicamente fino al tetto incrinando il muro delle loro stanze come una moderna casa Usher.
Mentre assisto a questa rissa di spazi chiusi e aperti, di nidi e di prigioni, penso pure che è un bel paradosso brulicante tutta quella gente che si accoda, noi che ci accodiamo, schiviamo tram e auto per entrare in un edificio e ascoltare la storia di un gruppo di persone che invece fa di tutto per uscirne.
Bisogna pure farci i conti con questa cosa, che in fin dei conti il cinema è un posto dove per evadere bisogna entrare, e se si continua a chiuderli perderemo un modo di aprirci. Tanto vale stare fuori ancora un po’, in fin dei conti mi è convenuto, penso per l’ultima volta, dilazionare l’esperienza, provarci almeno tre volte (una per ogni piano della storia) prima di vedere questo film, fare un respiro profondo e rientrare in una sala che non fosse un’arena.