Nostra Signora dei linguaggi: Carmelo Bene come maestro di semiotica

Carmelo Bene Nostra Signora dei Turchi Scena Due -

di Ludovico Cantisani

Pochi percorsi, nella cultura italiana nel senso più ampio del termine, sono paragonabili a quello tracciato da Carmelo Bene, genio del palcoscenico venuto più volte a “intromettersi” anche in ambiti quali la letteratura, il cinema, la radio e la televisione. Nato il 1° settembre 1937 nel cuore del Salento e morto il 16 marzo 2002 a Roma, dopo un vorticoso percorso iniziato alla fine degli anni cinquanta nelle cantine romane e nei teatri d’avanguardia era arrivato rapidamente ad affermarsi come uno dei più importanti e controversi artisti teatrali del periodo: ragion per cui, con il gusto della provocazione che gli era proprio, nel 1968 decise di interrompere bruscamente la sua carriera teatrale per darsi al cinema. Ne derivarono cinque film in sei anni, dall’iconoclasta sperimentazione cinematografica di Carmelo Bene poi da lui ricordata come “la parentesi eroica” – Nostra Signora dei Turchi, Leone d’Argento a Venezia 1968, Capricci, Don Giovanni, la coloratissima Salomé e il metateatrale Un Amleto di meno; dopo di che, sfumato un progetto sulla vita di San Giuseppe da Copertino, Bene abiurò il cinema e tornò a tuffarsi sul teatro.

Nostra Signora dei Turchi è il più noto e forse anche il più rappresentativo dei cinque film di Bene; anche perché, tratto da un romanzo del 1966 a firma dello stesso Carmelo Bene già portato a teatro, rappresenta appieno quello che oggi si definirebbe una “crossmedialità” – e che in altri tempi si sarebbe detto mitologema…

Dopo aver scritto il romanzo, ha fatto un adattamento teatrale di Nostra Signora dei Turchi. La dimensione teatrale l’ha limitata?

Per niente! Nessun limite! Non potevo buttarmi dalla finestra, ma c’erano altre cose. Non ho utilizzato nessun artificio. C’era soltanto una vetrata al posto del sipario. Il pubblico doveva seguire l’azione attraverso questa vetrata. Non sentiva niente, tranne quando l’attore si degnava di aprire una finestrella… A causa di questa specie di acquario a teatro c’era un’impossibilità totale di comunicabilità, mentre nel film c’è un equivoco. Le immagini e i colori possono imbrogliare lo spettatore al punto da fargli credere di comunicare e capire. In realtà, è vietato capire. Il film, a causa di questo equivoco, è infernale; a teatro era uno spettacolo astratto. Questa è l’unica differenza. Capricci è molto vicino a quello che riuscivo a fare con la versione teatrale di Nostra Signora dei Turchi. È un film più moderno, nel senso reale del termine (1)

Nostra Signora dei Turchi richiede ruolo unico allo spettatore, chiamato a formare film nella sua mente. Per questo motivo, possiede uno statuto ontologico particolarissimo. Su questo non c’è da discutere: ci si trova davanti a un film radicalmente diverso da tutti gli altri film. Sono assai pochi nella storia del cinema i film a cui si può dare una simile definizione. Questo tratto il cinema successivo di Carmelo Bene lo perderà, perché Capricci forzerà forse troppo la mano nella direzione della decostruzione, mentre gli ultimi tre film, il Don Giovanni, la Salomé e Un Amleto di meno, avranno una loro relativa organicità di impianto. Film “migliori” di Nostra Signora se ne possono citare a centinaia, ma l’estetica è un terreno così abusato da snervare; più interessante pare essere la semiotica, il linguaggio.

Per farla breve, Nostra Signora dei Turchi è la trasposizione filmica di un romanzo che Carmel Bene – sia prima che dopo aver girato il film – avrebbe portato anche a teatro, trasposizione filmica che dichiaratamente insegue, più che la bellezza o la narratività dell’immagine, la sua musicalità (!). Un bell’ingorgo di linguaggi, senza dubbio.

Mélo vuol dire melodia. Nostra Signora dei Turchi è un melodramma, ma non per la melodia che arriva alle orecchie, per la melodia che arriva agli occhi. La musica ci libera dalle idee, da ogni cosa. Non credo che alla musica e, grazie a Dio, non ho mai imparato a scriverla o a leggerla (2)

Il “romanzo” di Nostra Signora dei Turchi del 1966 fu il primo esperimento di C.B. con il medium “romanzo”. La prima versione dello spettacolo debuttò quello stesso anno, il 1º dicembre 1966 al Teatro Beat, e vedeva in scena oltre a C.B. anche l’inseparabile Lydia Mancinelli e Margherita Puratich. Tra le molte personalità di spicco avvistate in platea a vedere questa prima Nostra Signora teatrale C.B. enumerava anche Flaiano, Arbasino, Gassman – Gassman! -, la Melato, Patroni Griffi, Moravia, Gigi Proietti e anche degli “insospettabili” come Renzo Arbore, Gianni Morandi o Franco Franchi. Due anni dopo, nel 1968, il film Nostra Signora dei Turchi venne presentato alla Mostra del Cinema di Venezia. Una seconda versione teatrale, con scenografie a firma di Gino Marotta e un cast più corposo che comprendeva, oltre a C.B., Imelde Marani, Isabella Russo, Alfiero Vincenti, Bruno Baratti, Franco Lombardo e Geraldo Scala, debuttò invece al Teatro delle Arti di Roma il 10 ottobre 1973. Da questa seconda versione teatrale venne tratta sinanche una riduzione radiofonica di Nostra Signora dei Turchi, nello stesso periodo delle più note Interviste impossibili

Truccato da “cinema-verità”, Nostra Signora dei Turchi non fu compreso né come grandioso poema epico sul “sud del Sud dei santi”, né tantomeno come linguaggio cinematografico. Così come del precedente omonimo romanzo nulla si capì di tanta parodia della vita interiore. Affrontando il cinema io affrontavo certo uso dell’immagine che da sempre rifiutavo e trovavo insopportabile. Era questo disammantare l’ammanto che costituiva il mio primo film. (3)

Se c’è una cosa che il buon Elio Vittorini ci insegna è che non si può scendere al Sud senza astratti furori: o ce li si ha in partenza, o ce li si crea per l’occasione. Eppure, il romanzo di Nostra Signora dei Turchi avrebbe evidenziato di meno l’ambientazione geografica della vicenda, come invece, costretto in parte dal suo stesso linguaggio, avrebbe fatto il film: tutto il testo per carità è avvolto da un salentinismo latente, ma il nome di Otranto compare solo parecchie pagine dopo l’attacco, e, pur facendo riferimento al massacro compiuto dai Turchi nel 1480, il vero centro del romanzo sembra essere il suo particolarissimo punto di vista, una sorta di “dis-soggettiva” rigorosa e anarchica. Nostra Signora dei Turchi romanzo avrebbe bisogno di categorie critiche a sé per essere analizzato a dovere: per ora possiamo abbozzare di dire che si tratta tutta di una prima persona depersonalizzata, o di una terza persona insoggettivata; o, per sfuggire a queste specularità sfuggenti, che Nostra Signora dei Turchi sembra essere un romanzo scritto inizialmente in prima persona e poi volto alla terza, senza mai specificare il soggetto.

“Amami! È tanto, sai, è tanto se abbiamo salvato gli occhi! Flora, vestiti e vattene! Non c’era nessuna Flora. Oppure s’è vestita e se n’è andata. Tornando verso lo specchio: adorami!

Sulla tavola ardevano bottiglie, candele e coppe di gerani. Lasciò cadere le vesti che aveva raccolto in grembo ed erano rose. Si versò del pernod, preparato a settanta.

Prese un cilindro, uno dei tanti suoi da teatro, e ne trasse dal fondo una corona di spine. Se ne cinse il capo e tornò allo specchio.

Distoltosi, avviò il grammofono: Amado mio!, ma a tutto volume” (4)

Da questo punto di vista al tempo stesso radicalmente interiore e farsescamente esterno, Nostra Signora dei Turchi si dispiega come un viaggio allucinante nelle possibilità intrinseche della prosa di creare significati e di indicare situazioni del tutto impossibili nella vita reale. Tutti i grandi temi che poi rifluiranno nel film – la ricerca e il rifiuto della santità, il martirio mancato, il dissidio del protagonista tra le due donne e via dicendo – apparivano già tra queste pagine, ma con un tono e un’ambientazione diversa: innanzitutto, per quel che la prosa di C.B. lascia comprendere, gran parte delle vicende del romanzo si svolgono in casa. È in un privato che si fa conato di rito, “prova generale” a una pubblicità che è sempre data per scontata e che forse non si concretizzerà mai, che questo Anonimo Pugliese, probabilmente un attore, pulsa tra due vite, continuamente lanciato nel sovrastorico, nell’oltrestorico. Forse, rispetto al suo corrispondente filmico, è ancora più riluttante all’essere santo, e arriverà ad elencare tutta una sua cancrena di vizi davanti a un immaginario concistoro chiamato a deliberare se santificarlo già in vita:

“Entrò in cucina e stava per affrontare l’anticamera, ma lo sguardo gli urtò nel calendario appeso all’angolo, un calendario ecclesiastico davvero aggiornato. Il cuore gli prese a correre perché non c’erano dubbi, era quello il giorno in cui i vescovi avrebbero dovuto riunirsi proprio in casa sua, per decidere la sua santità. Lo confermavano le voci concitate e il fruscio delle vesti, tutto l’oro dei paramenti e il rosso sfolgorante dentro il telaio della porta di fondo chiusa, oppure incastonato come un diamante e un topazio e un rubino incastonati nella toppa vuota…

L’esperimento era delicato. I santi erano sempre tutti morti allorché se ne esaminava la grazia, lui invece era vivo più che mai. Se non altro il pudore di assentarsi in quella occasione. Per pudore almeno, avrebbe dovuto farlo” (5)

Comunque sia, Nostra Signora dei Turchi è interamente romanzo: romanzo che si fa forte delle sue specificità, romanzo che vuole essere dirompentemente testuale e nient’altro che questo, che testo. A sette anni dal debutto, notoriamente consumatosi al Teatro delle Arti con un Caligola di Camus per la regia di Alberto Ruggiero, C.B. volle cimentarsi nella letteratura con un romanzo che indagasse appieno le potenzialità intrinseche della parola scritta e non più declamata, recitata, evocata che fosse a teatro; così come, due anni dopo, anche il Nostra Signora dei Turchi, opera prima al cinema, volle essere dichiaratamente una riflessione sul cinema come mezzo specifico. Tra le due, di nuovo il teatro.

Mi fastidia, soprattutto nello specifico delle arti visive, questa volgarità delle immagini come mediazione, come tara ereditaria delle categorie ontologico-linguistiche del pensiero. La mia frequentazione cinematografica è ossessionata dalla necessità continua di frantumare, maltrattare il visivo fino talvolta a bruciare e calpestare la pellicola (6)

Dello spettacolo teatrale nelle sue due versioni datate ’66 e ’72 non risultano purtroppo registrazioni – solo dal 1974 sarebbe iniziata l’enciclopedizzazione tele-visiva del teatro beniano -, ma il senso delle due Nostra Signora dei Turchi teatrali lo si può in parte ricavare dalle recensioni dell’epoca e dalle testimonianze dei collaboratori. Descritto da C.B. al pittore Salvatore Vendittelli come “un saggio storico sul mio sud del sud… un poveraccio che racconta le sue disavventure al tempo dei Mori ad Otranto”, fu il primo spettacolo di C.B. ad essere messo in scena al Beat 72 di Ulisse Benedetti. Racconta Vendittelli, che dello spettacolo fu scenografo:

“Si è trattato di uno spettacolo tutto tenuto sul filo di un urlo accorato, un lungo singhiozzo per l’impossibilità di arrivare all’azione, di chiarire, di spiegare, di individuare. Un lavoro che si proponeva come un canto disperato, come condanna alla solitudine… Carmelo si moltiplicava muovendosi tra due opposte immagini di donne, Lydia Mancinelli […e] la Puratich. Due Margherite, prima e dopo la cura. L’una eroica e aureolata, che per quanti salti facesse non riusciva a mettere le ali: una maledetta scocciatrice, una specie di crocerossina che sembrava avere qualcosa della sadica fatina di Pinocchio. L’altra carnale e placidamente borghese, e prostituta” (7)

Nostra Signora dei Turchi è stato un canovaccio, un mitologema passato attraverso quasi tutti i linguaggi di cui l’immaginario beniano poteva servirsi – solo il teatro ripreso gli è mancato – ma questo schema di base del santo/non-santo sospeso tra le due donne restava ferocemente immutato. È cosa fin troppo nota, mai dichiarata da C.B. ma sempre implicata senza molti veli, l’autobiografismo che sottende all’opera, nelle sue 3-4-5 varianti: il contrasto, anche nel privato di C.B., tra la prima moglie Giuliana Rossi e la nuova compagna, musa e collaboratrice a tutto tondo Lydia Mancinelli. Più al fondo, più nascosto resta il lutto per la morte di Alessandrino, il figlio di pochi anni ucciso da tumore fulminante, di cui C.B. apprese la scomparsa solo a esequie avvenute. È forse in virtù del carattere sommamente privato dello spettacolo che, nella versione del ’68, Nostra Signora dei Turchi assumeva dei tratti di deliberata “teatroclastia”:

“C’era in questo spettacolo la volontà di esibirsi contro il pubblico, di recitargli contro dopo averlo invitato. Così, alla fine, gli spettatori finiscono per percepire i tre personaggi alienati come spettri, dentro un acquario, in una nebulosa di sogno. Una teatralità anti-teatrale. Nostra Signora dei Turchi non è stata una rappresentazione, ma un’esperienza dell’inafferrabile, dell’incomprensione e del rifiuto. Un’esperienza individuale” (8)

Non è un caso allora che, messa da parte e scartata la parentesi cinematografica, “eroica”, C.B. ritornò sulle scene proprio con una rinnovata Nostra Signora dei Turchi. Il cast, sia artistico che tecnico, aveva subito molte variazioni, ma il teatro era salvo: era il cinema che, nel frattempo, era stato vorticosamente consumato e poi ripudiato, gettato via come uno straccio morto.

M’è riuscito filmare una musicalità delle immagini, che non si vedono, per di più seviziate da un montaggio frenetico. Questa mia fobia dell’immagine non è iconoclastia fine a sé stessa, l’ho dimostrato in scena eccedendo il teatrino del testo fino a separare il teatro dallo spettacolo, così come nella teoria della crudeltà di Antonin Artaud (9)

Nostra Signora dei Turchi è cinema nudo, colto davvero nel suo “farsi” come voleva C.B., colto nel suo nascere – se non altro perché è il primo film. Un senso di minaccia incombe continuamente, nelle immagini e sulle immagini: e così come la Santa in alcuni momenti davvero quasi “aggredisce” il malcapitato e recalcitrante “non-martire” (il sacro come irruzione, direbbe Derrida), i fotogrammi costantemente tremano per il rischio di una clastia, e di una distruzione interna. L’immagine si sfalda, come in una visione, e forse sa di meritarlo. Grande risalto è stato dato all’aneddoto di C.B. che letteralmente calpesta la pellicola, affiancato dal montatore Mauro Contini: una sequenza che è stata sicuramente calpestata dovrebbe essere quella in bianco e nero del Primo Amore, forse anche altre; certo è il gesto che conta in questo caso, più che il tecnicismo e l’individuazione precisa delle scene “incriminate”. Di principio, stanno arrivando i turchi, anzi, sono già tra noi: forieri di una contaminazione di linguaggi e di sensi come solo il Sud può partorirne, oltre che di distruzioni e stragi che ben rappresentano una fine ginnastica mentale, un apprendimento applicato dell’iconoclastia.

Non per nulla C.B. in una delle sue interviste aveva parlato di “disammantare l’ammanto”; ma si sbaglierebbe a vedere il cinema beniano come una mera operazione di decostruzione. Nei suoi film Bene fa qualcosa di più, fa qualcosa di meno. Nella sua iconoclastia volutamente cieca, c’è una pulsione semiotica nascosta in piena vista, e che le sue successive frequentazioni con pensatori del calibro di Deleuze, Klossowski e Manganaro avrebbero ulteriormente palesato. E non per nulla l’inizio del suo percorso cinematografico con Nostra Signora dei Turchi era stato annunciato in questi termini da lui:

Avevo riflettuto a lungo sul cinema come mezzo “specifico”, e mi è venuta voglia di girare questa cosa (10)

La potenza semiotica di un film come Nostra Signora dei Turchi è duplice: da un lato, dà la possibilità di un confronto unico e completo tra almeno quattro diverse forme di linguaggio artistico – il romanzesco, il teatrale, il cinematografico e il radiofonico – con ulteriori contaminazioni dal melodramma e dalla leggenda sacra; dall’altro lato, nel mostrare queste immagini primordiali, “primitive” in tutti i sensi del termine ed embrionalmente montate l’una al fianco dell’altra fino a formare non una trama ma un aborto di trama, Nostra Signora dei Turchi mostra concretamente cosa sarebbe, in via di ipotesi, il linguaggio, quantomeno il linguaggio cinematografico, prima della lingua. Con lo stesso fare irriverente dell’Ulisse di Joyce, ma con una furia iconoclasta ancora maggiore e diretta questa volta contro il mezzo stesso del fare-cinema, la pellicola, Carmelo Bene con il suo primo film apre il suo cinema ad alcune questioni puramente semiotiche che, dei grandi autori europei, solo Jean-Luc Godard avrebbe saputo porre in fine carriera, con Le Livre d’Image del 2018. Come molti grandi provocateur del Novecento, come lo stesso James Joyce ma anche, andando qualche decennio indietro, Friederich Nietzsche, Carmelo Bene ha adorato nascondere gran parte delle riflessioni e delle implicazioni che soggiacevano al suo cinema e al suo teatro dietro un mare di dichiarazioni goliardico-depistanti, di piccoli scandali, di apparizioni televisive divenute esse stesse iconiche; ma la portata intellettuale della sua ricerca non va in alcun modo sottovalutata, e appare in tutta la sua forza non appena Bene ha di fronte un interlocutore con cui sente di parlare da simile, se non da pari: non un Maurizio Costanzo ma, a mo’ d’esempio, Goffredo Fofi, Doriano Fasoli, Maurizio Grande, o gli stessi Deleuze e Klossowski. E un film che mostra brandelli di pellicola calpestati dal suo stesso regista può così davvero diventare, parallelamente, anche un’opera critica: una critica rivolta innanzitutto verso sé stesso, o meglio, verso il proprio linguaggio…

——-

(1) Intervista di Noel Simsolo, Carmelo Bene, Contro il cinema, p. 29-30 – Minimum Fax, Roma 2017, a cura di Emiliano Morreale

(2) ibid, p. 31

(3) Sono apparso alla Madonna. Vie d'(h)eros(es) p. 118-119 – Longanesi & Co., Milano 1983

(4) Nostra Signora dei Turchi in Carmelo Bene, Opere. Con l’Autografia d’un ritratto, p. 47  Bompiani Classici, 2004 

(5) ibid, p. 73 

(6) Quattro Momenti su tutto il nulla. Momento 4 – L’Arte. 2004 Raidue

(7) Salvatore Vendittelli, Carmelo Bene fra teatro e spettacolo, a cura di Armando Petrini,  Accademia University Press – Mimesis Journal Books, Torino 2015 disponibile su https://books.openedition.org/aaccademia/852?lang.it

(8) ibid

(9) 4 Momenti su tutto il nulla. Momento 4 –L’Arte. 2004 Raidue

(10) Intervista di Jean Narboni, Carmelo Bene, Contro il cinema. p. 23 – Minimum Fax, Roma 2017, a cura di Emiliano Morreale

Immagine – Screenshot film Nostra Signora dei Turchi – Scena Due (1968) Carmelo Bene 

Eventi, Festival e Anteprime

Altre News

Articoli Correlati