Pubblicato il 29 Luglio 2021.
di Stefano Scanu
Ho battuto ogni centimetro di via delle Galline Bianche, prima in vespa e poi a piedi in modo più capillare, ma di polli neanche l’ombra, né bianchi né neri, di nessun colore. Poi ho fatto lo stesso in via Affogalasino e anche lì nessuna bestia o vasca in cui si potesse pensare di annegarla; in via dei Quattro Venti è tutto fermo, manco una brezza che sfrondi il viale, nessun alito di ponentino che ti sorprenda o almeno spettini un po’, e fortunatamente la situazione non cambia in via di Femmina Morta dove non ho rinvenuto cadaveri di alcun sesso.
È chiaro che la corrispondenza tra il nome e il luogo non regge e se mai c’è stata, si sarà persa in qualche angolo trascurato del passato di cui a questo punto sfugge il nesso. Ma spesso le cose si trovano proprio nel momento in cui si abbandona la ricerca, un po’ come succede con le parole che non ci vengono alla bocca, in quella circostanza la cosa migliore da fare è smettere di pensarci, così da lasciare spazio alla mente di andare libera e ritrovarle. Proprio come è andata con questa ricognizione toponomastica dove dopo essermi rassegnato all’idea che non avrei mai incontrato galline albine e ruspanti per una via di Labaro, ciuchi fradici e annaspanti, tinozze fatali, corpi straziati nelle campagne formellesi o venti che prodigiosamente spirano e si incontrano in un punto esatto di Monteverde, ho trovato quello che non sapevo di cercare su via delle Vigne Nuove, e poco importa che non ci sia neppure un filare di vite lungo il ciglio della strada, a riconciliare senso e parola ci ha pensato un piccolo spazio insolito.
Largo Fratelli Lumière è un’appendice del viale, poco più di un parcheggio incuneato tra i palazzoni chiari di questa parte di Roma. Contiene un microcosmo composto da una comunità che vive e lavora tra un giardino di giuggiole, un orto, un patio, un edificio rustico, un’arena cinematografica e poco altro, in una parola un polo che illumina l’intero quartiere. Dopotutto questa è una storia di luce intermittente, che si accende e si spegne per lanciare un segnale al prossimo, come farebbe un charter che traccia la rotta, una storia di luce a cominciare dal nome, stavolta sì in piena aderenza semantica. Dove altro poteva nascere un’arena se non nella piazza dedicata ai pionieri del cinema? Due domatori dell’immagine, due assi del nomen omen a cui non bastando quel poco di luce che avevano ricevuto in eredità dalla famiglia e dall’anagrafe, presero ad addomesticarla, a manipolarla e a offrirla in un teatro per lo stupore del pubblico pagante.
Il Casaletto brilla ogni giorno ma proietta una specie di folgore solo il venerdì sera, quando l’ingresso diventa una biglietteria, le sedie vengono disposte a formare la platea, le cucine si scaldano e lo schermo si srotola e barbaglia sullo skyline del III municipio. È seguendo quel faro e la fila di gente che ci sono finito dentro, superando il giardino, il patio e il laghetto artificiale sono arrivato nel pieno di una festa popolare, tra romani che cenano aspettando il film, seduti su pallet riconvertiti a poltrone che fanno il paio con enormi bobine di legno da cantiere usate come tavoli.
Una festa dell’unità, uno scampolo di rassegna dell’Estate Romana, al limite un agriturismo urbano, tutto sembra questo spazio tranne che un presidio ASL, per capirlo bisogna camminarci dentro, tra le persone e le strutture che lo abitano; passo dopo passo si intravedono gli strati della storia, a cominciare dal 2000 quando il Comune usando i fondi del Giubileo ristruttura una cascina abbandonata per concedere, prima a una associazione cittadina e successivamente all’Azienda Sanitaria, un luogo concreto in cui svolgere i laboratori socio-riabilitativi per i disabili adulti del Municipio.
All’inizio le stanze vengono arredate con pochi mobili di fortuna e molto entusiasmo poi nel 2002 la collaborazione tra ASL e Comune di Roma si perfeziona attraverso la sottoscrizione di un protocollo d’intesa che vede i due enti suddividersi le spese dando vita alla prima reale forma di integrazione socio-sanitaria nel territorio cittadino, cosa decisamente rara che non fa che accrescere l’unicità di questo posto. Il Casaletto non si barrica come un fortino o una clinica di periferia ma riceve la comunità che lo frequenta proprio come una casa popolare: lo anima, lo ara, lo coltiva, lo intonaca e ci passa più tempo che nella propria residenza. A questo punto della storia ci sono sia un tetto che una famiglia, tanto vale abitarci, così nel 2005 otto ragazzi disabili prendono possesso della biblioteca, del biliardino, della tv e delle stanze facendo di questo ex rudere una casa famiglia, ed esattamente come avviene per la maggior parte delle abitazioni, anche in questa capita di ospitare; lo scambio tra esterno e interno, ammesso che si possa distinguerli, è ininterrotto quindi organizzare qualcosa nel Casaletto significa farlo per il quartiere e viceversa. È una casa di vetro, anzi una lanterna accesa sulla città da tutte quelle faville di cui si diceva prima, a partire dal faro del proiettore fino alla luce che emettono tutti quelli che ci hanno lavorato e ancora lo fanno, una torma di illuminati, abbacinati e folgorati sulla via di Vigne Nuove. Come Rita Valentini che per prima ebbe l’intuizione, e poi Pina Simeoni, Ester Sampaolo ed altri operatori, fino ad Alessandro Paris che oggi dirige il centro, passando per tutti i residenti, le famiglie e i frequentatori che pezzo dopo pezzo, attraverso un nuovo Protocollo tra Roma Capitale e Asl Roma 1, a Marzo del 2021, hanno creato un Polo per la Promozione e Inclusione Socioculturale delle persone con Disabilità ovvero il Polo Lumière. Perché questo è oggi il Casaletto, un cardine, un punto di intersezione, soprattutto un aggregatore su cui si imperniano tutte le energie centrifughe che gli girano intorno. Ci voleva una parola così per sintetizzare il senso di questo luogo che avrà pure vent’anni ma rimane sempre sperimentale, e non è un vezzo ma un’esigenza nata circa un anno fa da una petizione popolare che ha ribadito la piena gestione dello spazio da parte della ASL definendone finalmente la vocazione osmotica.
Tutta questa luce stasera diventa cinema, l’arena proietta Raya, l’ultimo drago, lo leggo sulla scheda del film redatta dal loro laboratorio di cineforum permanente dove c’è pure un allarme spoiler e appena sopra una nota:
Per noi questo film ha un significato particolare perché ci insegna a lavorare in gruppo collaborando e avendo fiducia uno nell’altro.
Le cicale saturano l’aria mentre gli altoparlanti gracchiano un motivetto swing, i ragazzi e le ragazze del Polo indossano magliette arancione fluo, fanno da mascherine accompagnando gli spettatori ai propri posti, la vuoi un po’ di pasta? Che ti va da bere? chiedono a tutti mentre controllano che il numero sul tagliando corrisponda alla seduta. Il bigliettaio all’ingresso fa la conta e col walkie talkie rimanda l’informazione ai responsabili di sala, ancora sette, adesso cinque, tre, due, ne mancano ancora due, fa niente, la lista è chiusa e lo spettacolo comincia, passo. Dopo tutto il fulgore della giornata, a questo punto finalmente arrivano il buio e silenzio e lo fanno su comando: un uomo s’avvicina ai due lampioni dell’Acea finiti là dentro chissà come, digita qualcosa sul telefonino e quelli si spengono come per magia insieme al ronzio jazz e al frinire, ormai si vede solo la brace delle sigarette e una luna gigantesca sullo sfondo che lambisce le antenne dei condomini che manco in Melancholia.
Attacca la sigla, si vede il castello Disney e i titoli, ecco il contagio, la fusione, lo scambio, la socialità. Il cinema e i film come collante, distrazione, riabilitazione sociale, cura per tutti (quelli dentro e quelli fuori), insomma come livella. Nella penombra ci assomigliamo come tante silhouette e allo stesso modo nello stupore dello spettacolo si sta più vicini, compatti, con la faccia che riflette lo schermo e gli occhi aperti come la bocca. La malia prende tutti, non fa distinzioni né prigionieri, una festa di bambini incantati, proprio come diceva lo scrittore Frank Wedekind parlando del circo: “è l’aria della festa che qui mi avvolge, è un qualcosa di sontuoso, di grande, eppure a modo suo di così indicibilmente infantile”.
Il film va avanti, i draghi sfrecciano, i neonati si difendono a colpi di Kung Fu e Raya salta e combatte da una parte all’altra dello schermo. Ci si è rifugiati tutti in questa casa aperta, nel suo giardino dei giochi per sfuggire alla notte che intanto si è presa i negozi e le case intorno, qui ormai si vede appena, rimangono solo le maglie fosforescenti dei ragazzi del Casaletto che sciamano come lucciole nel giardino e fanno luce e strada nel quartiere.
L’Arena Lumière si trova a Largo Fratelli Lumière 36, a Roma. L’ingresso è gratuito previa prenotazione e nel rispetto delle esigenze di contenimento della diffusione dell’epidemia da COVID-19. Info e dettagli scrivendo qui
Immagini di Giorgia Vaccari