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La fotografia de “Il corpo della sposa”: intervista a Daria D’Antonio

il corpo della sposa

Pubblicato il 18 Gennaio 2021.

 

di Ludovico Cantisani

Daria D’Antonio è una direttrice della fotografia italiana nata a Napoli. Dopo aver lavorato per molti anni a fianco di Luca Bigazzi, ha esordito nel 2007 con l’acclamato documentario Il passaggio della linea di Pietro Marcello. Nel 2017 è stata la prima donna ad aver vinto il Globo d’Oro per la migliore fotografia, riconosciutole nella stessa edizione per due diversi film, La pelle dell’orso di Marco Segato e Ricordi? di Valerio Mieli; quest’ultimo era stato presentato alla Settimana Internazionale della Critica a Venezia. Ha da poco terminato le riprese di È stata la mano di Dio, il nuovo film di Paolo Sorrentino prodotto da Netflix. Una perla nascosta della sua filmografia è Il corpo della sposa – Flesh Out, lungometraggio d’esordio alla finzione della regista Michela Occhipinti. Ambientato in una atipica Mauritania, Il corpo della sposa segue le vicende della giovane Verida nei mesi che precedono il matrimonio impostole dalla famiglia, mentre è costretta a sottoporsi alla pratica del gavage, l’assunzione forzata di cibo mirata a farla ingrassare il più possibile prima delle nozze, in quanto l’obesità viene considerata più bella e prestigiosa della magrezza.

Quale è stata la tua formazione? Quali film hanno preceduto Il corpo della sposa?

La mia formazione non è “scolastica”, nel senso che ho cominciato molto presto come volontaria sui set. Devo molto se non tutto a Luca Bigazzi, che mi ha accolta giovanissima nella sua squadra insegnandomi tanto nel corso di una collaborazione durata 13 anni. Prima ero la sua video assist e stavo al monitor, un posto molto privilegiato per osservare il suo lavoro, poi mi ha fatto esordire in macchina come operatore della seconda camera: è stata questa la mia formazione, tutta sul campo. Prima de Il corpo della sposa avevo girato altri film fra cui Il passaggio della linea di Pietro Marcello, Padroni di casa di Edoardo Gabbriellini, La pelle dell’orso di Marco Segato, Slam di Andrea Molaioli, Il padre d’Italia di Fabio Mollo, Ricordi? di Valerio Mieli e la serie TV Il miracolo di Niccolò Ammaniti, oltre che Killer in Red, cortometraggio per Campari di Paolo Sorrentino.

La regista Michela Occhipinti, nota soprattutto per il suo documentario Lettere dal deserto (Elogio dalla lentezza), ha lavorato per molti anni a questo film, incontrando molte donne in Mauritania e nei paesi vicini che erano state sottoposte alla pratica del gavage. Come sei stata coinvolta ne Il corpo della sposa? Cosa ricordi del primo incontro con Michela Occhipinti?

Michela Occhipinti aveva sottoposto il progetto alla Vivo Film di Gregorio Paonessa e Marta Donzelli. Io conosco Gregorio e Marta dai primi anni duemila, quando avevo fatto un documentario di Nelo Risi su Andrea Zanzotto prodotto da loro; da allora avevamo sempre cercato di lavorare insieme ma non ci eravamo mai riusciti. Michela voleva girare Il corpo della sposa con una donna alla fotografia, sia per l’argomento sia per via del paese dove saremmo andate a girare; non ricordo se aveva già visto cose mie, sicuramente Gregorio e Marta hanno fatto a Michela il mio nome, l’ho incontrata e lei mi ha raccontato il progetto. Io sono subito impazzita per Michela, che è una persona molto simpatica, una donna molto intelligente, un vulcano e ho subito accettato il progetto. Sono poi passati circa due anni da quando ho incontrato Michela a quando ho girato Il corpo della sposa. Intanto però siamo rimaste in contatto, e Michela mi teneva aggiornata mandandomi ogni volta le nuove stesure della sceneggiatura. Durante i sopralluoghi si è rinforzato ulteriormente il mio rapporto con lei, che continua ancora adesso: Michela è una persona a cui sono molto legata, una donna poliglotta e cosmopolita, davvero una cittadina del mondo.

Come si è svolta la pre-produzione del film? Quali indicazioni generali ti ha dato Occhipinti sul look che voleva conferire al film?

Michela mi ha mostrato dei video che lei aveva girato autonomamente nei suoi viaggi in Mauritania, e mi ha fatto leggere diversi altri materiali. Quanto lei aveva girato era però abbastanza diverso da quello che poi abbiamo girato insieme ed è confluito nel film finito, perché abbiamo usato delle videocamere e delle lenti molto diverse, e la sua 5D aveva una forte definizione e una forte presenza del colore.  Però mi avevano colpita la grazia e la delicatezza dello sguardo. Michela conosce bene l’Africa, mentre io la conosco poco, ero stata soltanto due volte in Marocco e in ogni caso il Maghreb è molto diverso dalla Mauritania: sicuramente però la nostra intenzione sin da subito è stata quella di non raccontare l’Africa come ci sentiamo portati a immaginarla con colori molto saturi e un sole abbacinante, ma darle al contrario dei chiaroscuri, delle tinte più tenui.

Siamo partite da questa vicinanza di intenti, e dal canto mio io ho cercato anche di dimenticare quel poco che sapevo e di abbandonarmi a quello che vedevo. Da questo punto di vista è stata un’esperienza molto interessante, perché vai in un posto che non conosci assolutamente e ti sforzi di non imporre la tua visione e le tue esperienze passate su quello che vedi, di non formulare giudizi, di non dare nulla per scontato. Un’altra cosa che avevamo chiara, e che abbiamo ulteriormente discusso durante i sopralluoghi per organizzare bene le riprese, stava nel fatto che non dovevamo essere invasive, anzi dovevamo essere quasi invisibili: tutti i personaggi del film erano interpretati  da “non-attrici” che per la prima volta si trovavano davanti alla macchina da presa, per cui sapevamo in partenza che ci saremmo dovuti affidare molto alla luce naturale usando il meno possibile delle fonti artificiali affinché si sentissero a loro agio.

Come si sono svolti i sopralluoghi in Mauritania? In questa occasione e in Italia quali studi hai fatto sul gavage e sulla realtà visiva e sociale della Mauritania dove ti accingevi a girare?

Abbiamo fatto una decina di giorni di sopralluoghi a febbraio 2018, per scegliere le location, comprare i vestiti e anche per organizzare bene il piano di lavorazione a seconda della luce del sole che là non manca mai, studiando bene l’esposizione della casa e delle altre location, visto che sapevamo, come già detto, che avremmo potuto usare ben poco luci aggiuntive… Queste quasi due settimane di sopralluoghi sono state decisive per l’organizzazione del film e per la scelta definitiva del look visivo. Sicuramente un’altra cosa fatta prima delle riprese del film è stata documentarmi sulla pratica del gavage e sulla condizione delle donne in Mauritania. Il gavage un tempo era appannaggio di tutta l’Africa, adesso è pratica abbastanza decaduta, ma in Mauritania e Somalia resta. Michela dal 2012 in poi è andata spesso in Mauritania e ha intervistato moltissime donne che vi erano state sottoposte, e mi ha raccontato delle storie personali che sono confluite nella storia della nostra protagonista, che si chiama Verida.

Mi sono poi informata anche su Nouakchott, la città in Mauritania dove abbiamo girato, un posto poco conosciuto anche perché a differenza di molti posti dell’Africa la Mauritania in generale non ha un significativo fenomeno di emigrazione, per cui anche se al contrario c’è una migrazione interna dal Corno d’Africa quasi nessuno lascia la Mauritania per l’Europa, e questa è stata un elemento che mi ha colpito abbastanza. Certo ho trovato abbastanza singolare e interessante il fatto che, in uno dei paesi più poveri dell’Africa, sia ancora diffusa una pratica così incredibile e tutta incentrata sul corpo, sul cibo, sull’ingozzarsi.

Con quale macchina da presa hai deciso di girare il film e con quale set di lenti? Pur affidandoti molto alla luce naturale del sole, quali strumenti di illuminazione hai usato?

La macchina da presa era una RED Dragon, con una serie di lenti Zeiss 1.3 che trovavo molto luminose, morbide al punto giusto, un po’ vecchiotte e con la giusta “pasta” visiva. Avevamo solo uno slider, la macchina, le lenti, i filtri, due stativi, un cavalletto, una testata e basta, facevamo tutto così. Anche a livello di luci artificiali, eravamo costrette ad imbarcare il materiale, non potevamo trovarlo in Mauritania, per cui avevo con me una palla cinese e un piccolo LED, nient’altro. Da un certo punto di vista è stato stupendo. Durante i sopralluoghi però avevamo comprato un po’ di oggetti per arredare la casa, e avevamo trovato questa lampada a forma di cuore che è stata per noi una svolta totale. Illuminare la stanza di Verida al primo piano e di notte era impensabile, tanto più che con la scarsa illuminazione pubblica che notoriamente c’è in Africa non potevamo neanche giustificare un’ipotetica luce di lampione: nella strada fuori casa giusto qualche lampadina.

Già da prima avevo chiesto a Michela di tenere in conto la presenza di una luce diegetica che potesse in qualche modo coprire anche i momenti notturni; per fortuna siamo incappate in quell’oggetto meraviglioso che nel film diventa un elemento importante anche dal punto di vista della narrazione: la lampada a forma di cuore è stata provvidenziale, anche perché cambiava colore ed era molto bello giocarci a fare effetti di luce. Il sole ha fatto il resto, e quello non è stato un problema, anzi, stando in Africa, per Il corpo della sposa ho avuto il problema contrario rispetto a quello che avevo avuto per la serie tv Il miracolo: dovevo spesso togliere un’eccessiva luce del sole e non avevo tanti mezzi, quindi abbiamo risolto con dei teli neri e con altri strumenti di fortuna che mettevo a distanza sulle finestre per evitare che la luce cambiasse di scena in scena.

Come era composta la troupe de Il corpo della sposa? Le riprese del film quanto sono durate?

Le riprese sono durate 31 giorni fra la primavera e l’estate del 2018. La troupe era composta da un aiuto regista che faceva anche da segretaria di edizione, l’organizzatrice di produzione con un altro ragazzo che la assisteva, e la fonica; io avevo un fuochista, Alessio Galasso, e Tonia Forte, che faceva sia da aiuto operatrice che data manager; c’erano poi Amadou, un ragazzo mauritano che era una sorta di factotum per noi, e Sidi che oltre ad essere il protagonista maschile aiutava il reparto produzione  come “fixer”. Non c’era nessun altro, né di scenografia né di costumi per dire: io stessa ho dato una mano a stirare veli e a portare i costumi, perché facevamo tutto da sole. È stato bello lavorare così, qualcuno in più nella troupe non avrebbe guastato ma è andata bene comunque. Una troupe così ridotta è stata sicuramente una scelta economica per via del piccolo budget, ma era dettata anche dalla necessità di non stare in tanti sul set. Considerando il soggetto si è cercato di avere il numero più possibile di donne; tuttavia il mio focus puller, Alessio, grazie alla sua discrezione ha fatto sentire   le attrici molto tranquille e a proprio agio. Lui è stato veramente molto bravo: ha fatto film a tutta apertura senza prove e non ha praticamente mai sfocato.

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Fedele in questo alla tradizione del neorealismo, Il corpo della sposa ha come protagonista Verida Beitta Ahmed Deiche, una ragazza mauritana che ha veramente affrontato la pratica del gavage prima del suo matrimonio. Come si è svolto il rapporto fra te, la regista e questa “attrice-non attrice”? Trattandosi di tematiche molto delicate e già vissute dalla protagonista, come vi siete relazionate con lei durante il periodo della preparazione e delle riprese del film? Come è stata superata la barriera linguistica?

Sì, Verida aveva fatto il gavage diversi anni fa. Le barriere linguistiche sono state facilmente superate anche grazie alla semplice curiosità, fra me e lei a pelle si è subito creato un rapporto di simpatia: io stavo in macchina quindi sempre vicino a lei, soprattutto nelle scene con lei in camera da letto, lei stava sdraiata sul letto e io le stavo subito accanto. Verida è una ragazza molto simpatica, intelligentissima, alla fine con persone come lei non ci sono limiti, ti capisci o al limite usi Google Translate per farlo. Peraltro Amal, una delle ragazze del cast, parlava francese e ci faceva da interprete con Verida e con le altre; poi dopo pochi giorni è finita che Verida parlava in arabo e io in napoletano e ci si capiva lo stesso!

A parte gli scherzi, con Verida ho sentito da subito una grandissima affinità, ancora ci sentiamo spesso. Sapevamo che per lei riproporre alcune scene che aveva veramente vissuto potesse essere doloroso, per cui c’era attenzione e una grande delicatezza da parte nostra nei suoi confronti, tutta la troupe è stata molto sensibile e ben disposta, e lei è stata decisamente molto coraggiosa. Il corpo della sposa ha fatto incontrare persone con esperienze diverse ed età diverse – Verida comunque era molto più giovane di me – ma con tutte le (non) attrici c’è stata una grandissima affinità, e anche l’attore che fa Sidi, e che si chiama Sidi, continua ad essere mio amico, è venuto a trovarmi in Italia ed è stato con me e la mia famiglia quasi un mese: tutti gli incontri sul set de Il corpo della sposa sono stati degli incontri importantissimi.

In Occidente il corpo femminile è oggetto di una costante attenzione per la magrezza, nell’Africa rappresentata del film c’è un’ossessione per la grassezza. Nelle sue note di regia, Michela Occhipinti ha scritto che “la Mauritania nel mio film funziona come un ‘altrove’, in opposizione al mondo da cui provengo e vivo, e tuttavia, nella sua paradossale inversione di una serie di rapporti, si trasforma in uno specchio che mostra il modo distorto in cui il corpo delle donne viene sempre percepito. Come hai deciso di inquadrare fotograficamente questa inversione di campo? Quali sono state le principali sfide, a livello fotografico e culturale, della lavorazione de Il corpo della sposa?

Da un punto di vista culturale ho cercato di dimenticare ogni preconcetto che potessi avere. Non cadere nella tentazione di esprimere un giudizio frettoloso ed inesatto. Una cosa che come direttrice della fotografia ho evitato di fare, e in questo sono stata aiutata da Michela, è stata di  inquadrare le vicende del film da un punto di vista di un’ occidentale che guarda le cose con distanza; Michela è arrivata a questo film a 50 anni, l’età in cui una donna si guarda allo specchio, si vede cambiata ed è portata a riflettere sul suo corpo: se invece di giudicare l’Africa come occidentale ti interroghi come donna sul tuo corpo, sei portata a guardare e a narrare anche la riflessione di un’altra senza giudizio. Michela mi ha aiutato a entrare senza alcun tipo di giudizio e con uno sguardo di curiosità, senza voler dimostrare una tesi o raggiungere un obiettivo. È più interessante riflettere su come si è percepiti e da dove nascono le proprie sicurezze, quanto il contesto sociale influenzi la percezione di sé stessi.

Tutto questo secondo me ha dato a Il corpo della sposa uno spessore diverso: penso che il film sia molto bello perché non sembra il film realizzato da una persona occidentale; è film di una persona sensibile che racconta – senza esprimere giudizi – la storia di una ragazza che vive sì l’imposizione di un matrimonio, dovendo ingrassare contro la propria volontà, ma la sua vita intima non è dissimile dalle sue coetanee in giro per il mondo, e la consapevolezza di sé la porta a rifiutare questa pratica. E questo mi è piaciuto tanto, dell’idea di Michela e del film poi realizzato.

Una parte importante del film è ambientata negli interni della casa della protagonista Verida. Come hai deciso, d’accordo con la regista, di caratterizzare visivamente quell’ambiente? Fino a che punto ti sei affidata alla luce naturale e quanto sei intervenuta tu con luci da set?

Nel salotto di casa l’unica cosa che ho dovuto fare, anche per differenziare le varie situazioni, è stata alcune volte togliere il sole con mezzi di fortuna. La casa si trovava in una strada dove ogni tanto passavano delle macchine, e in certe ore il riflesso delle carrozzerie ci avrebbe infastidito, quindi siamo andate al mercato e abbiamo preso dei teli neri per montare delle piccole tende che potessero togliere la luce diretta. Era un sistema rudimentale ma molto efficace… In cucina fortunatamente c’erano poche scene, e ci siamo andati nelle ore più giuste, e lo stesso facevamo nella stanza da letto. Un po’ più complicata è stata la scena del gavage, una scena molto lunga che abbiamo girato con tante attrici su due giorni. Anche lì avevo comprato una stoffa arancione coprente per il tetto del cortile, per evitare che entrasse la luce diretta e per sfruttare la riflessione sulle pareti adiacenti eravamo costretti a muoverle continuamente. Si è fatto sempre di necessità virtù, ed è andata bene. Io sono molto contenta del film.

A fare sfondo alle vicende della protagonista Verida e delle sue amiche è Nouakchott, città della Mauritania particolarmente bella nelle scene notturne che si susseguono verso 2/3 del film, quando Verida incontra un suo “spasimante”. Quale era la città dove avete girato? Come hai illuminato gli esterni notte e quali interazioni avete avuto con gli abitanti locali?

Gli abitanti locali erano incuriositi e abbastanza ben disposti, anche attratti dalla novità di vedere una troupe. Soltanto Abderrahmane Sissako, che è del Mali, ci ha girato alcune scene di Timbuktu; in Mauritania girano molti spot ma non c’è una vera filmografia. L’attore che interpreta il padre di Verida ha un’associazione culturale, e spesso organizzavano proiezioni lì, per cui tutti erano abbastanza collaborativi. Nella scena in cui guardano la città dall’alto, ho messo al centro dell’inquadratura l’unica palla cinese che avevamo e abbiamo risolto così.  Per i fondi le luci della città hanno fatto il resto. Quando il ragazzo insegue Verida fuori dal bar abbiamo usato praticamente solo i fari della macchina, con un polistirolo che rifletteva la luce e la faceva rimbalzare su di lui; avevo una piccola saponetta a LED per fare i camera car, e questo è quanto. Poi Nouakchott non è molto luminosa di notte, sotto questo aspetto non ci ha aiutato.

Quando ormai manca poco tempo al matrimonio, la madre di Verida porta la protagonista in una capanna nel deserto, dove vive una donna capace di farla ingrassare ulteriormente con una tecnica ancora più invasiva. Cosa ha comportato, da un punto di vista anche pratico, girare nel deserto?

Quando le ragazze non rispondono al suggerimento delle mamme, le portano da queste “gaveuse”, queste donne tremende che le obbligano a mangiare, e stai due settimane là per prendere i chili che devi prendere. Siamo andati in una parte del deserto non molto lontano dalla città, e Michela aveva riproposto una cosa che aveva sentito raccontare. Particolari problemi con la sabbia non ne abbiamo avuti, ma anche nel deserto comunque non poteva esserci controllo della luce, per cui ho fatto una copertura sulla tenda: come sempre tutto il materiale che potevo usare erano le stoffe del mercato, tutto il mio carico di mezzi speciali l’abbiamo preso là. Abbiamo ricoperto la tenda di una stoffa ancora più scura per evitare che si sentisse troppo il cambio del sole diretto, con le risorse che avevamo era l’unica cosa che mi è parso sensato fare. Per quanto riguarda Il corpo della sposa da un punto di vista tecnico non c’è tanto da dire e al tempo stesso c’è molto da dire, perché per opere di questo tipo c’è uno sforzo maggiore che in un film con veri mezzi produttivi, sono state tutte soluzioni piccolissime fatte di stoffe, ritagli, scelta degli orari giusti.

La scena finale a bordo mare è una delle più belle del film. Cosa ricordi di quel momento?

La scena finale in realtà è stata girata durante i sopralluoghi, perché io avevo comunque con me obiettivi e macchina da presa. Michela aveva in mente esattamente quell’immagine – il riflesso sul mare di Verida a bordo acqua, con addosso il velo, che piano piano si cancella dalla sabbia mentre l’onda si allontana -, che le era capitato di vedere dal vivo. In uno di quei dieci giorni di sopralluoghi siamo andati sull’oceano, lei ha fatto mettere in posizione Verida vestita e abbiamo girato la scena finale; l’abbiamo anche rigirata nel corso delle riprese vere e proprie, ma alla fine Michela ha rimontato quella, aveva delle idee molto chiare su come dovesse finire.

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Sia a casa che ancor di più fuori casa, tutte i personaggi femminili de Il corpo della sposa devono portare un velo. Da un punto di vista fotografico, la presenza di un costante “velo”, se vogliamo di una barriera, fra le protagoniste e il loro mondo ti ha dato delle suggestioni visive particolari? Da un punto di vista pratico, anche voi della troupe dovevate indossare un velo?

No, noi della troupe non dovevamo indossare il velo ma quando siamo state invitate, in un paio di occasioni, a feste e pranzi dalla famiglia di Verida ci è sembrato più opportuno indossarlo, per una questione di rispetto; è stata una nostra scelta, perché loro non ce l’avevano chiesto, per loro era normale che fossimo vestite occidentale. Ovviamente non indossavamo shorts e canottiere, c’erano sempre pantaloni lunghe e camicie, ma in Mauritania molte donne effettivamente stanno a capo scoperto, anche fra i locali. In Mauritania c’è stata schiavitù fino a metà anni ottanta, e tuttora i mauritani si dividono in bianchi e neri pur essendo tutti abbastanza scuri: le donne del gruppo che discenderebbe dagli schiavi, che sarebbe il gruppo con la pelle più scura, appartenendo a classi sociali inferiori quasi sempre non indossano il velo e sono libere di non indossarlo; infatti quando le amiche di Verida sono al bar uno di loro è appunto più scura e non porta un vero velo, è vestita quasi all’occidentale ma trovavo più eleganti i veli tradizionali, che sono un po’ come il costume ottocentesco, hanno qualcosa di esteticamente più bello. Con Michela abbiamo scelto tutti i colori, non c’era mai una inquadratura con dei colori causali perché semplicemente una delle attrici era arrivata sul set vestita con certi toni, c’è sempre stato un pensiero cromatico che teneva conto anche dei colori della casa e degli esterni; in più il colore era scelto anche in base al momento narrativo.

Il corpo della sposa appartiene a una serie di film italiani incentrati su protagoniste femminili diretti da registe che negli ultimi anni si sono distinti ai festival nazionali e internazionali aprendo prospettive nuove sul fare cinema in Italia e sulla costruzione dei female lead character. Quanto pensi che il cosiddetto female gaze faccia mutare la prospettiva e la direzione di un film, soprattutto se incentrato sin dal titolo su una protagonista femminile e sul suo “corpo”?

Sono donne che raccontano le donne, non so se è una tendenza o una non-tendenza. Certamente tutte registe molto diverse tra loro: io comunque penso che il cinema che fa Michela, se pensiamo anche a Elogio della lentezza è un cinema atipico, un documentario di narrazione senza tesi e senza giudizio. Io sono contenta che ci sia questo sguardo nuovo e così interessante sulle donne, ma credo che anche molti uomini facciano dei film interessanti sulle donne e sui personaggi femminili: negli ultimi anni sono arrivati al cinema personaggi femminili interessanti, sia da parte di uomini che da parte di donne.

Il cinema di Alice Rohrwacher, per fare un esempio concreto, penso sia un cinema meraviglioso sugli esseri umani, non vi prevale un genere piuttosto che un altro, prevale uno sguardo delicato e poetico sul genere umano: è una donna e quindi ha chiaramente uno sguardo femminile, ma non si adagia solo e per forza sui personaggi femminili. Ne Le meraviglie le due ragazzine sono personaggi meravigliosi, ma anche la figura del padre è una figura importante e ben costruita. Poi un’attenzione eccessiva allo “sguardo femminile”, al fatto che io sia una diret-trice della fotografia rischia di diventare limitante per le stesse donne: ognuno racconta con il suo sguardo, e dall’altro lato il fatto che tu sei uomo e magari non sai raccontare personaggio femminile non vuol dire che sei misogino, magari racconti una cosa che più conosci o che ti è  più vicina. Non mi piace incasellare, a volte dei personaggi piccolissimi sono molto più forti di altri anche se sono soltanto accennati. Vorrei che ci fossero sempre più registe e sempre più mie colleghe, ma non penso che debba tutto ridursi a una questione di genere.

Dove si è svolta la post-produzione del film e quali interventi avete compiuto sul colore?

La color correction è stata fatta da Andrea Orsini alla Grande Mela. Comunque gli interventi sul colore sono stati pochissimi, tanto più che avevo già tolto un po’ di saturazione in macchina: è questo il mio metodo di lavoro, faccio molto in ripresa, in post-produzione non mi piace tanto esagerare o stravolgere l’ idea iniziale di colore, non sempre almeno.

Uscito nel 2019, Il corpo della sposa è stato a livello internazionale uno dei film più selezionati ai festival di cinema dell’anno: fra i molti festival toccati dall’opera, la Berlinale nella sezione Panorama, il BIF&ST, il Tribeca, il Bogotà International Film Festival e l’Annecy Cinema Italien. Nonostante le molte candidature e vittorie ottenute nella sua “festival run”, Il corpo della sposa ha ricevuto una scarsissima distribuzione nelle sale italiane. Perché pensi che film di questo tipo non siano incentivati dai distributori? Come pensi dovrebbe cambiare la distribuzione nelle sale e sulle piattaforme, in un ideale periodo post-Covid?

La formula di distribuzione in Italia de Il corpo della sposa era concepita con Michela che andava nelle varie sale e presentava. Evidentemente è stato sentito come un film “ibrido”, tanto più che era recitato in un dialetto arabo e in sottotitolato in italiano: purtroppo in Italia non abbiamo questa abitudine di andare a cinema e vedere film con sottotitoli, ed evidentemente i distributori hanno pensato che questa cosa potesse essere difficile per un pubblico. Le considerazioni dei distributori mi sfuggono e probabilmente sono dettate da altri parametri: secondo me invece Il corpo della sposa racconta una storia che potrebbe vedere chiunque, una storia semplice nel senso migliore del termine, che può essere universale e godibile. Dei film stranieri che vengono distribuiti in Italia però sono pochi i film africani, solo Atlantique di Mati Diop negli ultimi anni ha avuto un po’ più di visibilità. Il corpo della sposa in ogni festival è andato benissimo e ha vinto premi, addirittura in cinquina degli Oscar cinesi come miglior film straniero, ma è stato ignorato sinanche ai David. Io penso in generale che ci sia un problema sulla distribuzione, legata al numero di copie e al tempo della permanenza in sala: comunque se tu esci in troppe copie duri una settimana se non hai raggiunto certi numeri. Secondo me è inutile uscire in 300 copie, 400 copie o 50 per un film piccolo, proporzionalmente, se ti è destinato un tempo molto breve: io uscirei in meno copie e starei fuori più tempo, riorganizzando programmazioni di conseguenza. Per i film “piccoli” credo però sia importante almeno uscire in 10 copie, una per città nelle città in cui si va tanto a cinema.

Secondo me si dovrebbero tenere i film un po’ di tempo in più: non per il tempo che dà il risultato di un’equazione, ma perché bisogna dare spazio soprattutto a certi film che non hanno dei nomi forti in cartellone o battage pubblicitari di un certo tipo e che possono affidarsi soltanto al passaparola dei cinefili. Dall’altro lato tantissimi film vengono prodotti e non distribuiti, non si capisce perché lo fanno. Ad essere sincera però mi sfugge proprio la logica della distribuzione in Italia, e nel caso specifico de Il corpo della sposa mi chiedo perché il film sia uscito solo per tre giorni accompagnato solo dalla regista: va benissimo che i film piccoli girino così, ma c’è la sensazione che tu debba creare evento per portare gente al cinema e questo è avvilente, perché tantissime piccole produzioni così diventano invisibili. Non so nel post-Covid come dovrebbe essere. A volte temo che il Covid abbia definitivamente danneggiato la sala, ma dall’altro lato mi auguro che tanta privazione ci riporti dentro al cinema: la prima cosa che voglio fare, non appena sarà possibile, è andare al cinema a vedere un film, e spero che il maggior numero possibile di persone abbia questo stesso pensiero, che la privazione così lunga ci riporti a godere i film che per pigrizia si guardavano da casa. La distribuzione può fare molto, ma bisognerebbe ricominciare dalle scuole, oltre che dalle famiglie: portare bambini una volta settimana, riabituarli a quel momento di aggregazione che è la sala, non solo al piacere di vedere film, ma anche al piacere del dibattito, allo scambio di opinioni, e questa è una cosa che devi imparare da piccolo.

Sognerei accanto all’ora di ginnastica due ore di film obbligatorie nelle scuole, organizzare più proiezioni mattutine per le scuole, farei proprio dei bonus per le famiglie in modo che se vogliono andare al cinema due volte al mese lo possano fare ma a prezzo scontato, o stabilire più giorni a settimana in cui magari fai sconti per famiglie, perché pure quello ti allontana, e non è così ovvio che tutti possano andare a cinema se hanno una famiglia di 4-5 persone e uno stipendio normale. Incentivi di questo tipo sicuramente aiuterebbero, ma farei una riflessione molto approfondita soprattutto sul tempo di programmazione. È veramente avvilente per chi ci ha lavorato per anni che il suo film sparisca in due settimane. Dopo il Covid Il corpo della sposa dovrebbe essere distribuito senza avere paura del sottotitolo, se non proponi al pubblico film di questo tipo non lo abituerai mai a fruire di un cinema diverso. A volte conviene anche rischiare: magari in 2 settimane incassa poco, ma in 3 mesi puoi sperare nel passaparola. Forse si produce troppo, rispetto a quello che si è in grado di distribuire, ma qui ci buttiamo in un discorso difficile, perché poi come selezioni cosa produrre? In generale spero che dalle sue ceneri il cinema si rialzi un po’ meglio, con un po’ più di consapevolezza di prima.

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L’autore ringrazia Lorenzo Castagnoli (Digital Cinema Crew) per il supporto e la consulenza tecnica e Maria Michela Mirabelli per le suggestioni e l’aiuto nella trascrizione.

 

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