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Fabbrica di sogni, deposito di incubi. Dieci anni di cinema USA. 2010-2019

stefano santoli fabbrica dei sogni deposito di incubi edizioni mimesis

Pubblicato il 10 Agosto 2021.

Pubblichiamo un estratto del libro di Stefano Santoli ‘Fabbrica di sogni, deposito di incubi. Dieci anni di cinema USA 2010-2019’’ edito da Mimesis Edizioni che ringraziamo.

PROLOGO
Il mito della seconda opportunità

 

“There are no second acts in American lives”
Francis Scott Fitzgerald

 

Nel corso del secondo decennio del XXI secolo, ci si è gradualmente spostati dalla paranoia post-11/9 a una sempre più diffusa incertezza sul futuro degli Stati Uniti. La crisi finanziaria del 2008 e le sue conseguenze socioeconomiche; l’impoverimento progressivo, le incognite sul ruolo internazionale e l’inevitabile necessità di ridefinirsi sullo scenario mondiale, in cui gli USA – di fronte all’ascesa della Cina – forse non possono più ambire a ricoprire il ruolo di prima potenza. La fine dell’impero americano è prossima? Questa la paura più diffusa, che si riflette anche nei prodotti cinematografici di consumo apparentemente lontani da riflessioni sull’attualità. Al contempo, resiste e viene rilanciato dall’industria del cinema quel radicato ottimismo tipico della cultura americana, per cui sembra impossibile che gli Stati Uniti possano mai essere sconfitti o arrivare secondi. Questo ottimismo pervade le mitologie popolari rilanciate in continuazione dal cinema, e corrobora la stessa forza del Paese alle prese con le sue sfide. Forza che, in fondo, è ancora quella che colse Yasujirō Ozu, quando affermò di aver compreso che il Giappone non avrebbe vinto la guerra dopo aver assistito alla proiezione di Fantasia della Disney (1940).
Un antico archetipo, simbolico prima che narrativo, è molto caro al cinema statunitense: a una momentanea apparente sconfitta segue il trionfo, spesso attraverso il ritorno sulla scena di un eroe che si credeva sconfitto o addirittura morto, in realtà solamente uscito di scena e nel frattempo rafforzatosi. Nella cultura occidentale l’archetipo è evidente nella resurrezione di Cristo; il percorso simbolico di morte-resurrezione-trionfo è presente nel pensiero di Carl Gustav Jung, in cui il viaggio simbolico dell’eroe porta a compimento il processo di auto-individuazione e si compie con il raggiungimento della piena consapevolezza di sé. La resurrezione è una delle tappe di Il viaggio dell’eroe di Christopher Vogler (prima edizione 1992), che si basa sugli studi dello storico junghiano Joseph Campbell (L’eroe dai mille volti, 1949). Nella cultura e nel cinema popolare, i casi in cui si incarna l’archetipo sono innumerevoli. Nel cinema, l’archetipo trova continue, frequenti declinazioni: si pensi ad esempio a Revenant – Redivivo di Alejandro González Iñárritu (The Revenant, 2015), dove il protagonista è dato per morto dopo essere stato assalito da un orso, salvo poi ripresentarsi “redivivo”, pronto a compiere la propria vendetta. Nel corso del secondo decennio del XXI secolo, è stato declinato tuttavia in forme nuove, che esasperano la precarietà e la debolezza in cui si vengono a trovare i protagonisti, i quali ora possono persino morire (non semplicemente sfiorare la morte e essere creduti morti), salvo poi trovare un modo per risorgere. Sul piano simbolico, non è difficile scorgervi in filigrana sia la debolezza in cui si sentono attanagliati gli USA, sia il ribadirsi dell’archetipo mitico (che funziona in modo anche più entusiasmante, visto lo scarto che si viene a creare tra vera e propria morte e resurrezione). In termini politici, queste trame possono essere lette come un auspicio per il futuro: gli Stati Uniti – che pretendono, da sempre, di incarnare il Bene – ne sapranno sempre “una più del diavolo”, e il tramonto del loro impero non potrà che essere scongiurato.
Probabilmente, l’esempio più significativo e importante (in termini di incassi e di presa sull’immaginario collettivo) è costituito dagli ultimi due episodi targati Avengers della “Fase Tre” del Marvel Cinematic Universe (noto con l’acronimo MCU), diretti dai fratelli Russo, Avengers: Infinity War (2018) e Avengers: Endgame (2019). Quest’ultimo, al momento in cui scriviamo, è il film che ha raccolto i maggiori incassi planetari di ogni tempo (Avengers: Infinity War si colloca in quinta posizione). Bene, Avengers: Infinity War si conclude con un finale sorprendentemente traumatico, che ha lasciato sgomente le platee: l’apparente vittoria definitiva del villain Thanos, cui i supereroi non riescono ad impedire di portare a compimento il suo intento malvagio di volatilizzare in un istante, con uno schiocco di dita, il 50% della vita nell’intero universo (Avengers compresi). Il successivo Avengers: Endgame
inizia con un lungo segmento, unico nel suo genere, caratterizzato da un ritmo, più che lento, dimesso, e da un’atmosfera plumbea e luttuosa, con tanto di inquadrature di vasti cimiteri. Quindi, il film propone la rivincita, attraverso una versione inedita di viaggio nel tempo (alquanto complessa, tanto da spostare il film nei territori di un mind game movie (1), con distinguo esplicito, nei dialoghi fra gli Avengers, rispetto ai modelli cinematografici di riferimento – Terminator, Ritorno al futuro, ecc. – da cui il film intende prendere le distanze). Grazie a questo espediente, tutti gli Avengers morti tornano in vita, insieme a metà della popolazione umana: il film si propone allora come epos di una nazione che non solo non accetta la sconfitta, ma sente che essa non avverrà mai, e anche qualora avvenisse, sarebbe a sua volta sconfitta. Se necessario – come in effetti succede – anche grazie al massimo sacrificio dei suoi eroi: la vittoria finale su Thanos avviene con il sacrificio mortale di Iron Man.
Abbiamo accennato ai mind game movies, film-rompicapo che costituiscono un filone particolarmente felice nel XXI secolo, almeno a partire da Memento di Christopher Nolan (2000). Tale filone, nel decennio in esame, trova nuova linfa a partire da film come Inception dello stesso Nolan (2010) e Looper (Rian Johnson, 2012). La diffusione di film-rompicapo va di pari passo alla diffusione di eroi deboli, pieni di incertezze e ripensamenti, sensazione di fallimento o di non essere all’altezza delle proprie responsabilità (tutti gli Avengers, per restare all’universo Marvel, passano attraverso momenti di crisi più o meno importanti). È l’approdo di un lungo percorso: “già negli anni novanta alcune certezze cominciano a franare. (…) L’eroe sveste i panni muscolari degli anni Ottanta per farsi più complicato e problematico, sofferto e – talvolta – inetto. (…) Una lunga galleria di personaggi il cui sistema percettivo e la cui capacità di relazionarsi con la realtà circostante (…) appare assolutamente inadeguata. (…) Film incentrati su crisi della memoria, malfunzionamenti del senso della vista, drammatiche o ‘divertenti’ malattie neurologiche, insonnie e forme di schizofrenia” (2).
Ma se gli eroi sono tarati da vizi e debolezze di varia natura (indizio di certezze ormai compromesse), quasi immancabilmente viene loro concessa una seconda opportunità che consente comunque di avere la meglio. In alcuni casi, questa seconda opportunità assume la forma di un loop che permette di rivivere la stessa azione molteplici volte, guadagnando ogni volta informazioni ed esperienze necessarie per avere successo. La logica di fondo è di chiara matrice videoludica: la possibilità di ricominciare il gioco da capo si trasferisce però dal campo dei videogiochi a quello della narrazione con uno scarto di senso non banale. Ecco allora Source Code (Duncan Jones, 2011), in cui il protagonista (pur essendo morto) può rivivere a ripetizione gli ultimi otto minuti di viaggio di un treno diretto a Chicago fatto esplodere da un terrorista, per provare a individuare il responsabile dell’attentato. E ancora, Edge of tomorrow (Doug Liman, 2014), in cui durante un’invasione aliena il protagonista (morto in battaglia) scopre di poter rivivere in loop le ultime ore della sua vita, il che gli consente, ricominciando ogni volta daccapo, di salvare la Terra dall’invasione. Forse la fine è ormai imminente: per esorcizzarla, il cinema offre un’ultima, estrema, opportunità: la possibilità di ricominciare (se necessario all’infinito) a partire dal momento in cui le cose hanno cominciato a mettersi male.
Una seconda opportunità si cela anche in trame che apparentemente propongono sviluppi di altro tipo (non necessariamente più tradizionali). In Looper, ad esempio, il colpo di scena finale che consente di risolvere una situazione senza via d’uscita è costituito dal suicidio del protagonista che comprende come sia l’unica via per spezzare il loop di cui al titolo: grazie al ritorno indietro del se stesso futuro, vecchio di trent’anni, l’eroe ha l’improvvisa intuizione di quale sarebbe il corso degli eventi che discenderebbe dall’azione che lui stesso compirebbe e capisce che la sola opportunità per una soluzione positiva è l’interruzione del loop con una modifica radicale al corso degli eventi: il proprio sacrificio indivi- duale. Ancora una volta l’eroe si sacrifica e, morendo, consente al bene di trionfare.
A rendere familiare al pubblico la possibilità di ricominciare da zero non è solo la prassi videoludica: in ambito cinematografico, a far diventare comune l’abitudine a rivivere daccapo il medesimo scenario è la diffusione dei c.d. “reboot”, in cui avviene l’interruzione della continuity di una serie, e che si differenzia dai remake, a vantaggio della rifondazione di tutta la storia. Il reboot non si pone nei confronti del modello di riferimento con l’intenzione di aggiornarlo (restando nella sua ombra, rispettandolo, citandolo, secondo modalità tipicamente postmoderne), ma con l’intenzione di raderne al suolo le radici: “il reboot è ricominciamento, azzeramento e nuovo inizio, e la funzionalità dell’operazione ha più presa sul materiale narrativo quanto superiore si dimostra la capacità di separarsi da alcuni elementi riconoscibili che caratterizzavano la serie prima del riavvio”(3). La pratica del reboot è esplosa nell’ambito dei superhero movies a partire da Batman Begins (Nolan, 2005), portando a una continua riscrittura a strettissimo giro dei medesimi personaggi (4): il riferimento non è mai il film (o la serie) precedente, ma semplicemente una generica icona impressa nell’immaginario collettivo (l’idea di un supereroe come Batman, Hulk, Spider-Man, ecc.), che funge da contenitore per ospitarne molteplici declinazioni. Eroi, supereroi, personaggi condividono forme e racconti distinti che fioriscono nel volgere di pochi anni. Spider-Man, portato sullo schermo da Sam Raimi con una fortunatissima trilogia nel primo decennio del XXI secolo, è stato dapprima oggetto di reboot nel dittico di Amazing Spider-Man (Marc Webb, 2012 e 2014), quindi è stato inserito nel MCU completamente innovato, con due film del 2017 e del 2019 (Spider-Man: Homecoming e Spider-Man: Far From Home, entrambi di Jon Watts).
E se un eroe solo non basta, l’unione fa la forza: a venire in soccorso è la teoria degli universi paralleli (il “multiverso”), che consente per esempio a Spider-Man di essere aiutato, contro un nemico troppo potente, da altri Spider-Man provenienti da dimensioni parallele. È quanto succede in Spider-Man – Un nuovo universo (Spider-Man: Into the Spider-Verse, Bob Persichetti, Peter Ramsey e Rodney Rothman, 2018), film di animazione molto innovativo sul piano formale (ci torneremo) che trae spunto dallo Spider- Verse, ideato da una serie a fumetti scritta da D. Slott e C. Gage e disegnata da O. Coipel e G. Camuncoli, edita dalla Marvel Comics tra 2014 e 2015 (5).
Sin qui, ci siamo mossi sul piano del fantastico, che offre la possibilità di fondare o rifondare mitologie popolari anche col fine di fornire una risposta alle paure del presente. Ciò avviene attraverso meccanismi non intenzionali che si pongono sul piano sub- cosciente, sia da parte di chi concepisce le storie sia da parte del pubblico che le fruisce. Il potere del cinema, da sempre, è anche questo. Lo sa bene Tarantino, che – in modo invece intenzionale – investe ufficialmente il cinema del potere di riscrivere la Storia (Bastardi senza gloria [Inglourious Basterds], 2009; C’era una volta a… Hollywood [Once Upon a Time… in Hollywood], 2019).
Ma il potere del cinema è primariamente quello di preservare, celebrare, rendere immortale (oggi anche grazie all’ausilio della computer grafica) ciò che in realtà è definitivamente trascorso e non potrà più far ritorno in alcun modo. The Walk (Robert Zemeckis, 2015) rievoca l’impresa di Philippe Petit, il funambolo francese che nel 1974 passò dall’una all’altra delle Torri gemelle del World Trade Center camminando senza protezione su un cavo d’acciaio sospeso a 400 metri da terra. Il film di Zemeckis a suo modo rende immortali le Torri crollate nel 2001, sulla cui potenza mitologica il film è completamente incentrato: il cinema ormai ha il potere di farle rinascere, anche se solo su uno schermo e solo per la durata di un film. Il senso dell’operazione è racchiuso dallo splendido finale: il protagonista, dall’alto della Statua della Libertà e con le Torri sullo sfondo, guardando direttamente in macchina mostra agli spettatori il pass che gli è stato donato, di accesso libero alle Torri, per sempre. Forever. Il protagonista si defila, l’inquadratura si centra gradualmente sulle Torri, che brillano dorate mentre cala l’oscurità, rimanendo per un attimo le sole sagome visibili. Dissolvenza in nero. La commozione dello spettatore è provocata da quell’ultima parola pronunciata (forever), che non può non innescare nostalgia per un mito che è, letteralmente, crollato. Ma se le Torri non ci sono più, per la durata di due ore hanno ripreso vita in sala, per giunta in 3D. Forse, la più fine magia che il cinema può offrire è proprio questa: rendere immortale una realtà che è stata mitica, ricreandola nella finzione. Le Torri sono crollate, l’America è in pericolo, il futuro è incerto. Ma forse non è solo illusoria la speranza offerta dalla certezza che i valori incarnati da un mito siano ancora vivi. Certamente, i miti degli USA appartengono al XX secolo. Come le Torri gemelle, e la loro breve storia.

 

(1)  Sulla definizione si rinvia a Th. Elsaesser, M. Hagener, Teoria del film. Un’introduzione, Torino 2009, pp. 173-174.
(2)  F. Marineo, Il cinema del terzo millennio. Immaginari, nuove tecnologie, narrazioni, Torino 2014, pp. 95-96. Marineo fornisce esempi precisi di film del primo decennio del secolo. In The Bourne Identity (D. Liman, 2002), primo episodio della saga dedicata all’agente Bourne, il protagonista viene ripescato in mare senza memoria e scopre gradualmente la sua identità di killer. Anche il cinema per bambini – il personaggio di Dory nei film Pixar Alla ricerca di Nemo (Finding Nemo, 2002) e Alla ricerca di Dory (Finding Dory, 2016) – e la commedia familiare – 50 volte il primo bacio (50 First Dates, Peter Segal, 2004) – “si aprono alle patologie della memoria” (F. Marineo, cit., p. 99).
(3) F. Marineo, cit., p. 92.
(4)  Il caso più clamoroso è quello di Hulk, che nel 2003 era stato portato sullo schermo da Ang Lee per essere poi inserito nel MCU con un film che ignora completamente il predecessore di appena cinque anni (L’incredibile Hulk [The Incredible Hulk], L. Leterrier, 2008).
(5) Ci troviamo in un panorama integralmente transmediale, in cui convivono immaginari che condividono fonti diverse (graphic novel, cinema e serie tv) e la rifondazione e riformulazione delle linee narrative trascorre da una tipologia di prodotto a un’altra.

© 2021 Mimesis Edizioni
Tutti i diritti riservati 

stefano santoli fabbrica dei sogni deposito di incubi edizioni mimesisFabbrica di sogni,
Deposito di incubi
Dieci anni di cinema USA. 2010-2019
Stefano Santoli

Mimesis Edizioni   

Pagine: 248
Pubblicazione: 2021
Prezzo: 20 euro

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