Lady Maiko, educazione di una geisha

di Giorgia Sallusti

Shizuka Gozen, leggendaria danzatrice shirabyōshi e concubina dell’eroe Minamoto no Yoshitsune, era famosa per la indicibile bellezza e per il fascino delle sue danze, così magico che si dice gli dèi commossi le donarono la pioggia dopo una lunga siccità. Questa celebrata ballerina è riconosciuta dalle geisha come l’antenata più illustre, tanto da vedere replicata la sua danza formidabile col ventaglio rosso sui palcoscenici di tutto il Giappone. Nel 1872 il Governo dell’allora imperatore Meiji emana l’editto per l’emancipazione della geisha: i debiti delle ragazze vengono cancellati, i contratti regolarizzati, le case da tè prosperano, e si inaugura l’età dell’oro delle arti che le geisha e le maiko loro apprendiste affinano in quel piccolo ed esclusivo mondo dello hanamachi, o distretto dei fiori.

Nel rarefatto universo del karyūkai – il mondo dei fiori e dei salici – dei quartieri del piacere, tra case da tè e danze tradizionali, Masayuki Suo dà vita al film Lady Maiko, un’interpretazione inconsueta ma convincente sul tema di My Fair Lady. Anche la sceneggiatura di questo film del 2014 (presentato con qualche anno di ritardo nell’edizione virtuale del Japan Film Festival di questi giorni) è di Suo.

Chi avrebbe mai pensato di poter vedere insieme raffinatissimi kimono di broccato e balletti in stile Broadway anni Cinquanta? Certo non io, eppure questo ensemble drama è un’orgia visiva appagante che utilizza qua e là qualche scintilla romantica per ottenere un qualche slancio drammatico nell’intreccio.

L’antico mondo delle geisha è quasi un sinonimo di Kyōto, una città pervicacemente aggrappata al suo patrimonio artistico e tradizionale in cui non di rado si osservano giovani geisha in kimono affrettarsi lungo i vicoli che si snodano tra vecchie case di legno e ochaya, le storiche case da tè. In Lady Maiko si apprende come qualche secolo fa, ma anche fino a un non troppo distante passato, le maiko venissero vendute alle case da tè dalle proprie famiglie poverissime. Dopo un lungo e durissimo addestramento, alcune tra queste ragazze sarebbero diventate le geisha dei migliori distretti di Kyōto.

Nella scena di apertura, alcuni clienti di una maiko si lamentano che le geisha di oggi non sono poi così distanti dalle idol pop, che molte case da tè hanno addirittura maiko part time per gli eventi con i turisti. Eppure il vecchio quartiere di Shimohachiken sostiene ancora la tradizione secondo cui ogni distretto deve ospitare almeno una maiko. Ciò impedisce all’unica maiko della casa da tè Bansuraku, Momoharu (Tomoko Tabata), di ottenere lo status di geisha, nonostante abbia quasi 30 anni: come per i Jedi, deve esserci sempre un maestro e un apprendista, e qui senza un’apprendista la maiko anziana non può accedere allo scalino superiore.

Quando la giovane Haruko (Mone Kamishiraishi) arriva in città dalla campagna per il suo apprendistato presso la Bansuraku, viene respinta per la mancanza di referenze da Chiharu (Sumiko Fuji), la tenutaria. Accidentalmente, il suo strano accento colpisce l’attenzione del professor «Roach» Kyono (Hiroki Hasegawa), esperto di linguistica. Roach decide di fare una scommessa con il vecchio e affezionato cliente Kitano (Ittoku Kishibe): in sei mesi, insegnerà a Haruko a padroneggiare il Kyōto-ben, il dialetto usato solo dalle geisha, che suona «as gentle as the whispering breeze».Un po’ come Higgins, il quale cercava di strappare l’anima cockney da Eliza per plasmarla e farne la sua fair lady.

Chiharu accetta con riluttanza di seguire Haruko. Il suo apprendistato, che inizia duramente con le attività meno poetiche come la pulizia del bagno, ci offre una finestra sulla raffinata arte del mondo dei fiori e dei salici, che include danza, musica e un modo non comune di trattare con le persone: «In our days, we even bowed to telegraph poles», racconta una vecchia geisha con orgoglio.

Questa dramedy impiega la popolare formula giapponese del geniale professore, esperto in una forma d’arte – in questo caso Kyono e il particolare linguaggio degli hanamachi – da insegnare alla giovane apprendista, con grande sforzo e momenti di comicità. Insomma, un metti-la-cera-togli-la-cera ma con la glottologia, un tentativo brillante che Suo aveva già dispiegato con successo in Shiko funjatta (Sumo Do, Sumo Don’t) del 1992.

A circa due terzi del film arriva il punto di svolta: Haruko va in burnout per la pressione delle aspettative dei suoi mentori e scoppia a piangere durante gli esercizi di danza, sembra sgretolarsi sotto al peso del percorso difficile che ha scelto, per le privazioni che la vita della geisha impone. Non esattamente l’happy ending che ci aspettavamo, ma la strada e il film sono ancora lunghi.

Con personaggi che abbracciano quattro generazioni, il film mostra le geisha a diversi stadi della sua carriera. Troviamo l’incarnazione dell’eleganza e dell’autorità, l’attrice Sumiko Fuji (conosciuta prima come Junko Fuji, famosa per i film sulla yakuza degli anni Sessanta e Settanta), capace con uno sguardo di cambiare la temperatura nella stanza. La moglie e musa di Suo, l’attrice Tamiya Kusakari, assume la posa da regina delle nevi nel ruolo di Satoharu. Tabata, invece, parla e si comporta come una maiko di Kyōto, ma il suo personaggio è più sottile, evanescente rispetto al peso degli altri. La sedicenne Kamishiraishi trasmette facilmente l’entusiasmo di una principiante; il suo debutto da maiko, il misedashi, è una trasformazione magica come quella di Cenerentola. Presentando Kyono come un insulso topo di biblioteca (completamente diverso dal gentiluomo mondano di Rex Harrison in My Fair Lady), la sceneggiatura di Suo evita intenzionalmente ogni conflitto romantico tra mentore e allieva, anche quando l’amicizia di Haruko con l’assistente di Kyono Shuhei (Gaku Hamada) offrirebbe prospettive interessanti per un triangolo amoroso.

Il ritmo di Lady Maiko consente ai balli tradizionali giapponesi di legarsi a brani musicali stile Broadway, balli latini e altre esibizioni danzerecce che ricordano i gloriosi anni Settanta. Non bastasse la contaminazione stilistica, ci pensala fotografia di Rokuro Terada a occhieggiare al musical americano. Sebbene sia una trovata divertente, la massiccia presenza della danza non alleggerisce il film che sfora il limite psicologico delle due ore, e benché Kusakari sia bravissima, qualche ricamo in più fra i momenti musicali e i dialoghi avrebbe giovato al ritmo complessivo. I costumi di scena – i meravigliosi kimono di maiko e geisha – sono perfetti e fanno da contrappunto ai giardini giapponesi della città, sfondo suggestivo in tutto il film. «Non è per una geisha desiderare. Non è per una geisha provare sentimenti. La geisha è un’artista del mondo, che fluttua, danza, canta, vi intrattiene», scriveva Arthur Golden in Memorie di una geisha (Longanesi, traduzione di D. Cerruti Pini). Per fortuna, invece, in Lady Maiko perfino loro sembrano divertirsi – e noi con loro.

 

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